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Il primo (e solo) delitto "di mafia" in Ticino

Il mattino del 17 ottobre 1990, il corpo di un uomo senza vita veniva trovato, riverso nella sua automobile, nel parcheggio di un hotel di Losone. Due colpi alla testa sparati da un killer tutt’oggi sconosciuto
Archivio SBT
Il primo (e solo) delitto "di mafia" in Ticino
Il mattino del 17 ottobre 1990, il corpo di un uomo senza vita veniva trovato, riverso nella sua automobile, nel parcheggio di un hotel di Losone. Due colpi alla testa sparati da un killer tutt’oggi sconosciuto

LOSONE - Due colpi alla testa. Sparati, a meno di un paio di metri di distanza, dalla bocca di una pistola automatica, calibro 7.65 millimetri. L'opera di un professionista. Quella tra il 16 e il 17 ottobre del 1990, come riportano le cronache del tempo, fu una notte di pioggia «e un po’ di nebbia». Una nebbia, quella attorno a quell’omicidio, che non si diraderà mai del tutto.

Fu un passante, il mattino successivo, ad accorgersi che dietro a finestrini appannati di quella Lancia Thema di colore blu, con targhe di Milano, posteggiata fuori da quell’albergo di Losone, giaceva riverso sul sedile il corpo senza vita di un uomo.

Il delitto, una vera e propria esecuzione, avvenne tra le 3 e le 4. Complici il buio della notte e il brutto tempo - e probabilmente l'utilizzo di un silenziatore - nessuno si accorse di nulla. Nessun testimone di quella scena che, in Ticino, non aveva precedenti. «Freddato con due colpi in testa», scriveva l'indomani l'Eco di Locarno evocando immediatamente l'intreccio di «droga e soldi» sullo sfondo. «Forse un regolamento di conti», aggiungeva il Giornale del Popolo. Nel mentre, gli inquirenti, cauti, informavano di stare «seguendo tutte le piste». Ma in realtà, da subito c'era «l'impressione che le indagini» avessero «già imboccato un percorso preciso».

Un "faccendiere" che collaborava anche con la polizia
Il nome di quell'uomo non sarebbe rimasto sconosciuto a lungo. Giusto un paio di giorni. Si chiamava Alessandro Troja, 54 anni. Era «un pregiudicato siciliano». Una sorta di «faccendiere», come si leggeva tra le colonne dei quotidiani, che «collaborava con la polizia». Anche con quella ticinese, come poi sarebbe emerso in un secondo - e non troppo distante - momento. Quell'uomo «all'albergo Losone non lo conoscevano», ma alloggiava nel Locarnese già da un paio di mesi e aveva l'intenzione di stabilirsi in Ticino per i successivi tre anni, almeno. E in città si era fatto qualche conoscenza giocando a bridge, mentre al di fuori del circolo non lo vedeva mai nessuno.

Anche perché non viveva stabilmente nel Locarnese. Faceva «l'altalena» tra il sud della Francia e il Belgio, dopo che, ormai «bruciato» dalle numerose condanne - nella lista ci sono traffici di armi, truffe, rapine, associazione di stampo mafioso, tentati omicidi e pure un'iscrizione (non di primo piano) nei faldoni della strage alla stazione di Bologna dell'agosto del 1980 -, era stato costretto da chi gli stava sopra a fare le valigie ed espatriare, trovando riparo fuori dall'Italia.

Un soggetto, in realtà, di piccolo calibro ma con una dote di entrature importanti. E non solo in Cosa nostra o nella camorra campana, ma anche nei servizi segreti. Anche a questo i giornali del tempo arrivarono subito. «Spuntano i servizi segreti», l'Eco di Locarno. «Hanno ucciso un agente infiltrato», il Corriere del Ticino. «Una trappola fatale per il pregiudicato-infiltrato», il Giornale del Popolo. Era un «personaggio noto alle polizie di vari Stati - come scrisse in un comunicato l'allora Procura pubblica del Sopraceneri - per i suoi legami in particolare con il mondo della droga». Insomma, uno che quel suo particolare curriculum di conoscenze decise di riciclarlo. «La polizia lo conosceva come un buon informatore», anche se «da "prendere con le pinze"».

E la sua presenza in quel di Losone non era sconosciuta agli inquirenti, come dimostrerà il fatto che la zona fosse tenuta sotto controllo da parte della polizia proprio in quei giorni. La stampa del tempo sollevò sin da subito diversi interrogativi sulla "zona grigia" all'interno della quale Troja si muoveva. «Perché da alcuni mesi questo faccendiere poteva entrare e uscire tranquillamente dal Ticino?». Di quei contatti con le autorità ticinesi, lui stesso, come raccontato da chi aveva condiviso il tavolo da gioco con lui, era solito "vantarsi". E la sera stessa in cui fu ucciso, come poi confermato anche da Antonio Perugini (che all'epoca era procuratore pubblico) ai microfoni di "Edizione Straordinaria" della RSI, il 54enne italiano era stato a cena con alcuni agenti di polizia.

Un'esecuzione, un avvertimento
Quella notte, al suo rientro in albergo, qualcuno probabilmente lo stava già aspettando. Qualcuno che ben sapeva dove poterlo trovare e che, con ogni probabilità, non gli diede tempo di reagire. Il solo volto di questa storia che ancora non si conosce. Quello di chi tirò il grilletto. Due lampi silenziosi nella pioggia, in piena notte, per poi dileguarsi nel nulla.

Un'esecuzione, verosimilmente per punire un qualche sgarbo commesso ai danni di qualche sua vecchia conoscenza. E un avvertimento, come suggerito dalla "firma": un proiettile, rivolto con l'ogiva verso l'alto, lasciato al fianco dell'automobile. Quello di quella notte di 35 anni fa è il primo (e probabilmente anche l'unico) delitto "di mafia" avvenuto in Ticino. Un "cold case" che, probabilmente, non sarà mai risolto. E la coda, violenta, di una stagione in cui ormai si era capito che certe cose potevano accadere anche a casa nostra.

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