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SAVOSA

«Mani legate, in piedi contro la parete e acqua all'Amuchina da bere»

Fabrizio Ceppi, attivista della Global Sumud Flotilla, racconta la detenzione nel carcere israeliano - in mezzo al deserto - di Ketziot.
«Mani legate, in piedi contro la parete e acqua all'Amuchina da bere»
Foto Davide Giordano
«Mani legate, in piedi contro la parete e acqua all'Amuchina da bere»
Fabrizio Ceppi, attivista della Global Sumud Flotilla, racconta la detenzione nel carcere israeliano - in mezzo al deserto - di Ketziot.

SAVOSA - Fabrizio Ceppi, in tutta onestà, lo rifarebbe?
«Non lo so se lo rifarei. Il cuore potrebbe dirmi di sì, perché non è tanto il fatto di rischiare qualcosa, ma il fatto di fare qualcosa perché questa situazione a Gaza cambi. E questo spinge tantissimo a trovare poi la motivazione per poter fare quello che abbiamo fatto. Io sono partito da quello.

Al porto di Ashdod, le cose hanno cominciato a mettersi davvero male
«Decisamente. Lì abbiamo capito che loro volevano farti sentire chi comandava. Ti disprezzavano. Questa è la cosa che più mi ha ferito. Ci hanno messo le mani dietro la schiena facendoci anche male, ci hanno spintonati fino a uno spiazzo dove ci hanno buttato a terra, obbligandoci a stare in ginocchio con la testa piegata in avanti, chinati. Appena uno si muoveva e se ne accorgevano veniva subito ripreso, qualcuno di noi ha preso dei colpi. Appena alzavi la testa te la cacciavano giù. Siamo rimasti in quella posizione per un'ora».

Le vessazioni sono continuate in carcere. Prima però siete passati anche dalle anguste cellette dei "torpedoni" che vi avrebbero condotti nel famigerato penitenziario di Ketziot, in mezzo al deserto.
«Un pullman-prigione, con degli ambienti di segregazione piccolissimi dove ci dovevamo stare in quattro e dove si toccava praticamente con la testa la parete davanti, perché erano proprio 50 centimetri, forse meno di distanza. Siamo rimasti lì almeno un'ora ad aspettare di partire e dentro faceva un caldo insopportabile. Ho chiesto più volte se potevo avere i miei medicinali, dell'insulina, chiamavo, chiamavo ma non mi dava retta nessuno.

L'ingresso a Ketziot è cominciata con una spoliazione. Poi una lunghissima notte, al buio e senza fiatare.
«Ci hanno messo in un grande recinto all'aperto e uno a uno veniamo chiamati e portati dietro alcune tendine dove ci fanno spogliare completamente. Ci ordinano di mettere tutto quel poco che avevamo addosso in un sacco dei rifiuti e ci dicono di indossare le tute da prigionieri. Da lì al centro medico. Poi sono stato condotto in cella. Inizialmente ero da solo, poi a notte inoltrata sono arrivati altri 10-11 prigionieri, arrestati sulle barche dopo di noi. Le guardie hanno buttato in terra due materassi, perché non c'era più posto nelle cuccette. La notte è trascorsa in un silenzio spettrale. Hanno spento la luce e guai se ti sentivano parlare. Non potevi fiatare. E così non sapevi neanche chi avevi di fianco. Al mattino, quando ci siamo svegliati, ci siamo presentati. A parte due italiani, la maggior parte di loro proveniva dal Maghreb. Fra i compagni di cella c'era anche un senatore pakistano».

Cosa prevedeva il rancio?
«Premessa: niente acqua. O meglio: quella del lavandino del bagno che però sapeva di Amuchina, cloro. Al mattino hanno portato del pane e delle uova sode e qualcosa tipo verdure. Tre o quattro piatti buttati lì per terra per 12 persone».

Qualcuno dei vostri compagni ha parlato di percosse. Lei ha subito delle violenze?
«Fisiche no. Psicologiche sì. Ti obbligavano a stare in fila senza motivo con le mani dietro. Dovevi sederti e poi tirarti in piedi. Ci mettevano contro la parete e poi ci dicevano di metterci in un angolo. E un secondo dopo ti dicevano di andare dall'altra parte. Atteggiamenti vessatori, eri assoggettato ai loro voleri di comando».

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