Quella Cassarate spopolata, tra orti, rogge e una scuola


Stephanie Brenta, una cittadina luganese di 97 anni
Stephanie Brenta, una cittadina luganese di 97 anni
LUGANO - Avevamo traslocato a Cassarate, al pianterreno di una casa in una piccola traversa di via Pico, oggi inghiottita dall'albergo Villa Castagnola. Via Pico era in quel tempo l'unico quartiere un po' abitato di Cassarate. C'erano costruzioni e alberghi a fronte lago, ma dietro c'era il vuoto, campagna e orti e una roggia che scorreva libera.
Qua e là una qualche villetta sperduta in Via delle Scuole, che a partire dal palazzo scolastico non era asfaltata fino alla chiesa di Santa Teresa, costruita da poco. La zona Della Santa e via Merlina erano popolose e la maggioranza degli scolari veniva da lì.
In riva al lago c'era la Lanchetta, un terreno ghiaioso con la pesa pubblica e di fronte la bellissima, un po' rustica, filanda dei Torricelli, demolita nel 1957 per far posto alla Casa Torre. E poi più niente fino alle scuole.
In via Pico ci si conosceva tutti. C'erano i Regazzoni, genitori di Clay (non ancora nato), i Roncoroni, i Lepori, i De Vecchi e il calzolaio Caffi. Un isolotto in una zona che si doveva ancora sviluppare.
Comincia l'anno, seconda maggiore. Trovo lì una maestra che è stata la mia migliore e più cara amica, fino alla sua morte, la maestra Vittoria Bianchi. Era sulla quarantina, capelli corti e bianchi, viso abbronzato con le rughe del ridere alle tempie e gli occhi vivaci color pervinca. Mi squadrò dalla testa ai piedi, era più piccola di me e disse: «Come sei magra! Rimedieremo».
La scuola mi annoiava, dopo Sant'Anna era troppo facile e così bigiavo e lei: «Sbrendolo, bigia pure, ma per favore non venire a ricreazione». Poi: «Stephy, in direzione!». Mi mangio un baffo che non hai fatto colazione e mi trovavo in mano una michetta con un grosso pezzo di cioccolato e del latte. Vittoria, Nike la chiamai più tardi, mi aveva vinto. È stata una persona importantissima nella mia vita. Con la sua ironia riusciva a vincere le mie resistenze. Le volevo un gran bene. Era la mia confidente e il mio grillo di Pinocchio.
Un giorno a Lugano incontro una cantante. Essendo così alta, cercavo sempre di andare curva con la testa in giù. Mi fermò. «È un po' che ti osservo, alza la testa quando cammini, guarda in faccia la vita, non si vince se ci si abbassa». Le diedi retta, mi rivide, mi sorrise: «Bene così!» disse. E se ne andò.
Era ottobre quando tutta la scolaresca munita di un pacchettino di sementi, in fila per due, sale fino alla chiesa di Castagnola. Di fronte c'è un viottolo che porta al secondo pianoro del cimitero. Era costeggiato da un pendio incolto. Lì, con i giardinieri, che avevano preparato le buche, ci fecero piantare le sementi: è così che è nata quella meraviglia del parco di San Michele. Quando ci vado mi piacerebbe sapere qual è il mio albero, però son belli tutti.
Un giorno arriva in classe il pittore Filippo Boldini. Vuole una ragazzina che posi in costume ticinese per lui. Si guarda in giro e sceglie me. Ed eccomi in viale Cassarate 6. Ignoravo che lì viveva con la sua famiglia quello che 15 anni dopo sarebbe diventato mio marito.
Mi piaceva la mia classe, la mia maestra, i miei amici. Un mattino arriva un medico per farci un test tubercolina: sono positiva.
Dopo quattro mesi lascio la scuola. Di nuovo una valigia e un treno che mi portano a Davos, in un sanatorio che si chiamava Strela. E lì restai sola soletta per sei mesi, su una sdraio in veranda a far la cura dell'aria. La mia maestra da lontano continuava a istruirmi e mi mandava libri e lettere divertenti. Dopo sei mesi tornai a casa, avevo perso un anno.
Il mio mondo erano i libri, li divoravo. Vivevo storie bellissime perché vedevo i personaggi muoversi nella mia fantasia. Non bisogna dimenticare che allora non c'era la televisione, non c'era il telefonino, non c'era tutto quello che hanno i giovani oggi. Poi, seduta su una panchina nel parco Ciani, vicino al Socrate Morente, davanti a me l'albero con i rami che toccano l'acqua, scoprivo il mondo della poesia: Rilke, Hesse, Baudelaire, Carducci, Montale, Foscolo, Leopardi. Li avevo assorbiti tutti in me.
Dietro me la biblioteca del liceo, dove mi rifornivo regolarmente. Questi libri mi creavano sensazioni, le parole diventavano musica e il lago davanti a me rubava i miei pensieri. Ogni tanto vagavo nel nulla. Amavo il realismo di Guy de Maupassant, Steinbeck, Orwell, l'utopia di Huxley, poi i russi, soprattutto Puškin. Tutto, tutto quello che trovavo da leggere.
Lessi molti anni dopo che una biblioteca non ti toglieva la verginità, ma l'innocenza: era vero. Ero realista, un po' cinica, romantica e sentimentale, un miscuglio in questa mente che turbinava attraverso il sogno e la realtà. Quei difficili anni di miseria e di umiliazioni riuscivano a essere ammortizzati dal mio mondo interiore.
Nel frattempo Vittoria mi mandava avanti con lo studio. Ho la fortuna di essere dotata di una memoria incredibile. Ricordavo tutto quel che leggevo e che studiavo. Ed ecco che riparto: meta, la magistrale femminile di Locarno. Ma questa è un'altra storia. Ve la racconterò la prossima volta.