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Il «pranzo al sacco», secondo Lele Adani

Ex calciatore, oggi opinionista e (da sempre) amante viscerale del calcio. Sabato sarà ospite al Festival Ednorfine di Lugano. Con lui abbiamo parlato della "controversa" telecronaca e del momento complicato del pallone italiano
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Il «pranzo al sacco», secondo Lele Adani
Ex calciatore, oggi opinionista e (da sempre) amante viscerale del calcio. Sabato sarà ospite al Festival Ednorfine di Lugano. Con lui abbiamo parlato della "controversa" telecronaca e del momento complicato del pallone italiano
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LUGANO - «Pranzo al sacco». Tre parole, un caso. All'indomani della recente partita di qualificazione tra Italia e Israele, quasi nessuno parlava del (rocambolesco) risultato (un 5-4 che non si vede spesso). Poche analisi e disamine tattiche sulla prestazione della nazionale azzurra. A conquistarsi i riflettori è stata invece la telecronaca del match, affidata dalla Rai alla coppia formata da Alberto Rimedio e Daniele Adani. E proprio con l'ex giocatore di Fiorentina e Inter - che sabato sarà ospite al Lugano International Festival Endorfine - siamo tornati su quel momento e, più in generale, su quello - non luminosissimo - degli Azzurri.

Quel «pranzo al sacco» è diventato un caso. C'è un problema, in Italia, nel raccontare lo sport lasciando libere le emozioni?
«Non lo chiamo un problema, perché non si guarda solo il negativo. Io non ho mai avuto così tanti attestati d'amore e di condivisione. Ne ho fatte tante di cronache e fortunatamente, ringraziando il calcio, sono stato chiamato a raccontare a modo mio diversi episodi che hanno portato a questo "disordine" che in realtà è un'estensione - attraverso la voce - di un racconto d'amore. E mai in maniera così naturale e così condivisa».

Condivisa in che senso?
«Condivisa perché è stata vissuta. Quando si parla si parla di un momento di disordine in campo si parla di tutte le due aree di rigore. L'ultima (riferendosi all'azione conclusiva della partita, ndr.) nell'area di Israele. Quindi è l'Italia che ne ha beneficiato e alla fine abbiamo vinto. Pensa se avessimo perso... Poi tutti si sono immedesimati nel "pranzo al sacco" perché tutti lo hanno fatto nella vita. Io ho sentito tanto trasporto e di questo sono grato. Poi tutti quanti sono liberi di esternare il loro dissenso. Ma è stata una cosa bella, genuina e pulita. È stato un "amarcord". Diciamo che ha trasportato tutti in un altro tempo - magari non compreso subito - tra quello che accadeva in campo e quello che è stato il racconto. E secondo me il tema è solamente "ma come ti è venuta?", solo questo. Dopo c'è chi la pensa in un altro modo. Ci sono i tanti che avrebbero voluto esserci. Tante volte mi è capitato di raccontare prodezze a cui ho assistito e che ho potuto trasmettere con la mia passione. Non accade a tutti. Probabilmente perché il calcio premia chi lo ama».

Ecco, colgo l'assist. Il tuo percorso in questo senso è più lungo di quello che molti ricordano. Perché lo slancio è arrivato durante la pandemia, ma gli inizi si intrecciano con i giorni in cui hai appeso gli scarpini al chiodo...
«Ti dico, penso che il mondo si apre. Le menti dovrebbero aprirsi. La mia è totalmente a disposizione di quello che mi viene indicato. Dal calcio e dal racconto. Se poi tu credi nel calcio e credi nel racconto, ci sono tante cose che vanno di conseguenza. Che sono l'analisi, il lessico, il linguaggio, la passione, lo studio. Tutte queste cose vanno messe insieme. E, quasi quindici anni fa, quando ho iniziato a fare questo lavoro, non eravamo a questo punto. Ma come in tante altre cose al mondo, perché il mondo, può piacere o no, va avanti. Quindici anni fa non era così. Quindi io che sono uno aperto, che guarda tutto, sentivo dentro - e lo sento sempre - questo trasporto per il calcio, che amo sempre di più. E soprattutto l'adeguamento di come lo si racconta».

Passiamo ora al futbol vero, quello giocato. Prima che sui campi, per strada, quando si è piccoli. Sempre con lo sguardo all'Italia; i bambini di oggi sono meno fortunati rispetto a qualche generazione fa, quando tante cose si potevano dare per scontate. Oggi i più grandi campioni non giocano in Serie A. E i ragazzini di 10-12 anni non hanno mai visto la nazionale italiana a un mondiale. Una lacuna enorme. Come si tiene in vita una tradizione così importante in un momento così?
«Col pranzo al sacco (ride, ndr.). Con quella passione e con quel rispetto. Con le analisi fatte non solo per riempire uno studio televisivo ma per lasciare qualcosa alla gente. Con il racconto giusto di un calcio di valori, non di un calcio di comodo come spesso viene fatto in Italia, dove tanti manager cercano di spartirsi la torta tra di loro invece di tutelare i bambini, che una volta potevano giocare tante ore per strada e adesso devono pagare molto di retta per andare nelle scuole calcio. Con formatori che spesso, invece di accampare scuse, dovrebbero pensare di più ai ragazzi e non al loro far carriera. È questo. Sono le cose semplici e naturali. Ed è il calcio che racconto ogni minuto della mia vita. Un calcio di valori. E sai perché divide? Perché, purtroppo, molti di valori non ne hanno. Si dice che i ragazzi non guardano più le partite, che si accontentato degli highlights... Sì, ma tu fagli capire quanto il calcio fa presa nel cuore e nella mente delle persone. E non pensare di portare un figlio a scuola calcio solo perché vuoi che diventi Yamal. Perché quella non è la normalità. È l'eccezionalità, accade una volta su un milione. Noi giocavamo tante ore e non ci interessava nulla d'altro».

Dal passato al futuro, concludo tornando al destino della nazionale italiana. Perché per qualificarsi ai prossimi mondiali negli Stati Uniti dovrà, con ogni probabilità, affrontare lo scoglio dei playoff. Sportivamente nefasti prima nel 2018 e poi nel 2022. Quelle due mancate qualificazioni hanno fatto sembrare il trionfo all'Europeo, nel 2021, come un'anomalia. Pure questo uno smacco che non si cancella. E se accadesse di nuovo? A quale crisi andrebbe incontro il movimento italiano?
«Condivido la tua premessa e la tua analisi. Sarebbe un segnale sportivamente drammatico. Perché anche i potenti del calcio non saprebbero più quali scuse accampare. Sarebbe un tutti contro tutti, alla ricerca spasmodica di "starci" invece che "crederci". Perché questo è il problema. Io dico sempre: cause non cariche. Perché le cause servono. Invece di perderci a scaricare colpe e puntare il dito, cerchiamo di dare un contributo affinché questo movimento si riprenda. E aggiungo: quello che abbiamo detto prima incide su questo. La mancanza di formazione, l'egoismo, la comunicazione che non approfondisce ma che si limita in superficie a dire "cambio Gravina (l'attuale presidente della Federcalcio italiana, ndr.) e metto dentro qualcun altro" non serve a nulla. Bisogna veramente andare nei paesi e incidere. Quindi far riassaporare il calcio e la passione. Perché quando mi dicono che non ci sono più i calciatori che avevamo negli anni '90, io sono d'accordo. Ma qualcuno mi deve spiegare come mai il Portogallo, che ha 11 milioni di abitanti e non 60, ai mondiali ci va. Come mai ci va l'Uruguay, che ne ha 4 milioni. Come la Croazia. E come mai la Norvegia ci fa così paura? Chi studia il calcio deve chiedersi perché la penisola scandinava evolve e crea movimenti nelle accademie in Danimarca, Norvegia, Svezia. I giocatori nascono lì e non qui? Allora è una questione di cultura e di metodologia».

E quindi?
«Non ci voglio pensare... Ma credo che ci andremo».

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