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Così ti odio sui social. Identikit di un male strisciante

Dal caso Zali alla serie tv Adolescence. L'hate speech è sulla bocca di tutti. L'esperta spiega perché, come difendersi e cosa non fare.
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Così ti odio sui social. Identikit di un male strisciante
Dal caso Zali alla serie tv Adolescence. L'hate speech è sulla bocca di tutti. L'esperta spiega perché, come difendersi e cosa non fare.
LUGANO - Atti diffamatori e ingiuriosi, perpetrati attraverso i social. Questi i capi d'accusa che hanno trascinato alla sbarra una donna ticinese, imputata per alcuni post contro il consigliere di Stato Claudio Zali. La vicenda emersa alcuni gi...

LUGANO - Atti diffamatori e ingiuriosi, perpetrati attraverso i social. Questi i capi d'accusa che hanno trascinato alla sbarra una donna ticinese, imputata per alcuni post contro il consigliere di Stato Claudio Zali

La vicenda emersa alcuni giorni fa davanti alla Pretura penale di Bellinzona, trarrebbe linfa da altri post - sempre contro Zali - messi in rete da una seconda donna, anch'essa denunciata (per stalking). 

Ciò che accomuna le due vicende (oltre all'accanimento nei confronti della stessa persona) è l'uso della rete e dei social per esprimere rabbia e odio. Che è più comune di quel che si pensi, come ben evidenzia la recente serie tv di successo targata Netflix: “Adolescence”. 

Sul fenomeno dell'"Hate speech" - contro il quale è in arrivo un'iniziativa popolare del media alternativo Infosperber -, si è chinata in modo approfondito Eleonora Benecchi, docente ricercatrice all'Università della Svizzera italiana, specializzata in social media. 

Hate speech online, cos'è?
«Hate speech significa attaccare o umiliare una persona o un gruppo in base a caratteristiche identitarie come genere, orientamento sessuale, etnia, religione, disabilità o appartenenza politica. Può essere esplicito, ad esempio se si usano insulti e minacce, o più sottile, se si usa l’ironia, ma in modo sprezzante. In sostanza è un linguaggio che incita all’odio o alla violenza e mina la dignità di intere categorie sociali».​

Quali sono le categorie maggiormente aggredite?
«Le donne sono tra i gruppi più bersagliati da hate speech. Tuttavia è importante sottolineare che le minacce e i discorsi d’odio online sono spesso intersezionali. Questo significa che non colpiscono una persona solo per un motivo, ma per una combinazione di fattori identitari. Ad esempio, una donna può essere attaccata non solo perché è donna, ma anche perché è di origine straniera, oppure appartiene a una minoranza religiosa, o è una persona LGBTQ+. In questi casi, l’odio si somma e si sovrappone, rendendo gli attacchi più violenti, più frequenti e più complessi da affrontare. In pratica: più "diverso" sei rispetto alla norma dominante, più bersagliato puoi diventare nei contesti digitali».

L'identikit dell'hater?
«L’hater online può essere chiunque. I dati della ricerca JAMES di cui ci occupiamo per la Svizzera italiana dicono che tra i 12 e i 19 anni quasi la metà dei giovani ha offeso qualcuno in chat private almeno una volta negli ultimi due anni. Ma tende ad agire in ambienti e circostanze che favoriscono l’odio online. Ad esempio l’odiatore è spesso anonimo, o nascosto dietro profili fake, spinto da emozioni forti, come rabbia o frustrazione, appartenente a comunità online che normalizzano l’odio. In alcuni casi, cerca solo visibilità o provocazione (allora si parla dei cosiddetti "troll")».

C'è una degenerazione culturale, oppure i social non fanno altro che fissare un fenomeno sempre esistito?
«I social non hanno creato il discorso d’odio, ma lo amplificano. Già prima esistevano molestie e linguaggi discriminatori. Tuttavia, le dinamiche digitali quali anonimato, invisibilità, velocità, lo rendono più facile da esprimere e più difficile da controllare. In aggiunta la possibilità di non vedere il volto o la reazione immediata di chi abbiamo ferito porta a minimizzare le conseguenze del proprio comportamento favorendo l’hate speech»​.

La rete funge da cassa di risonanza. Un conto è se a odiarti sono i due bulletti del quartiere, un altro se questo odio viene condiviso in un ambiente che potenzialmente può includere migliaia di persone.
«La differenza principale è la scala: online, l’odio può essere visto, condiviso e rilanciato da centinaia o migliaia di utenti. Questo aumenta esponenzialmente l’impatto psicologico sulla vittima e può trasformare un singolo attacco in un’ondata collettiva. I dati JAMES 2024 ci dicono che il 7% dei giovani svizzeri è stato insultato pubblicamente online più volte​. Non dobbiamo però separare troppo l’ambito fisico da quello digitale perché spesso odio online e offline si intrecciano e si rinforzano l’un l’altro. Chi subisce bullismo online spesso ne è vittima anche nel contesto fisico, e viceversa».

Con le conseguenze più drammatiche ormai all'ordine del giorno...
«Le conseguenze dell’hate speech possono essere gravissime: ansia, depressione, isolamento, fino al suicidio. Molte persone (soprattutto giovani donne) scelgono di autocensurarsi, cambiare il modo di usare i social, o abbandonarli del tutto. Questo però toglie spazio e parola a chi dovrebbe invece averne, mentre amplifica chi fa discorsi che dovrebbero essere bloccati o contenuti».

C'è uno schema che si ripete tra chi fa hating?
«L’ hate speech online segue spesso uno schema comunicativo ben preciso, in cui entrano in gioco diversi attori. Tutto parte da chi lancia il messaggio d’odio, l’hater, che sceglie un bersaglio, spesso una persona o un gruppo percepito come vulnerabile o diverso. A questo punto, il messaggio comincia a circolare. 
C’è chi lo sostiene apertamente, magari commentando o rilanciando il contenuto: sono quelli che potremmo chiamare gli intolleranti, persone che condividono o alimentano il discorso d’odio.
Poi ci sono quelli che non sono d’accordo, che magari trovano il messaggio sbagliato o offensivo, ma che restano in silenzio. Sono i tolleranti passivi, spettatori che non partecipano, ma neanche contrastano il fenomeno.
Infine, un ruolo fondamentale è giocato dalle piattaforme digitali, come i social network, che ospitano questi contenuti e che possono scegliere se intervenire, o restare passive. La loro scelta può fare una grande differenza: un contenuto segnalato e rimosso subito ha un impatto molto diverso da uno che resta visibile per giorni o settimane».

Una prevenzione è possibile?
«La prevenzione dell’hate speech online è possibile, ma richiede un approccio su più livelli, che combina strumenti tecnici, consapevolezza individuale e strategie comunicative.
Un primo passo importante riguarda la cosiddetta "igiene digitale": imparare a usare i filtri, bloccare parole offensive, limitare la visibilità di certi contenuti o account problematici. A questo si aggiunge la necessità di controllare regolarmente le impostazioni di privacy e sicurezza, per mantenere un ambiente digitale più sicuro.
Un’altra strategia è il silenzio selettivo: ignorare troll e account fake può essere efficace, ma solo se accompagnato da azioni concrete come la segnalazione del contenuto, il blocco dell’utente e la documentazione dell’attacco (screenshot, data, descrizione). Questo aiuta anche nel caso in cui si decida di denunciare formalmente l’accaduto.
Infine, una risposta attiva e costruttiva può arrivare dal contro-discorso, una pratica che non censura, ma smaschera e disinnesca l’odio con intelligenza. Si possono ad esempio mettere in luce i pregiudizi nascosti nei messaggi, adottare toni empatici per spiazzare l’aggressività, ridicolizzare l’odio con ironia o sarcasmo, oppure trasformare il messaggio, piegandolo a una lettura costruttiva.
Tutte queste strategie vanno usate in modo complementare. Nessuna è efficace da sola, ma insieme possono davvero aiutare a rendere i social spazi più sicuri e inclusivi».

Cosa invece non bisogna fare?
«Innanzitutto, non bisogna rispondere con odio: replicare con lo stesso linguaggio aggressivo non fa che alimentare il conflitto e legittimare chi attacca. Anche rispondere a troll o account fake spesso significa cadere nella loro trappola: provocare è esattamente ciò che vogliono.
Allo stesso tempo, però, non è utile ignorare completamente senza agire. Il silenzio può essere una strategia, ma deve essere attiva, come già spiegato. Restare passivi può far credere all’hater che la comunità approvi o, peggio, sia indifferente.
Un altro errore comune è etichettare le persone. Dire “sei un idiota” o “sei un razzista” chiude ogni possibilità di dialogo e alza i toni. È più efficace spiegare perché un messaggio è inappropriato, puntando sul contenuto e non sull’identità di chi scrive.
Infine, attenzione all’impulsività. Come recita il detto digitale: "Posta in fretta, pentiti con calma". Anche una risposta indignata, se mal calibrata, può generare più problemi che soluzioni. E perfino condividere contenuti d’odio solo per indignazione rischia di amplificarli, contribuendo involontariamente alla loro diffusione».

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