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Abusi religiosi, le vittime: «Credete alle nostre storie»

Il primo bilancio, dopo otto mesi dalla fondazione, del Gruppo di Ascolto per Vittime di Abusi in Ambito Religioso. La presidente: «Siamo pronti ad ascoltare».
Ti-Press / Pablo Gianinazzi
Abusi religiosi, le vittime: «Credete alle nostre storie»
Il primo bilancio, dopo otto mesi dalla fondazione, del Gruppo di Ascolto per Vittime di Abusi in Ambito Religioso. La presidente: «Siamo pronti ad ascoltare».

LUGANO - Ascoltare per permettere alle vittime di liberarsi dai sensi di colpa e dalla solitudine. È questa la missione del Gruppo di ascolto per le vittime di abusi in ambito religioso (GAVA). Dopo otto mesi dalla sua fondazione, l’associazione ha sostenuto cinque persone che si sono fatte avanti per raccontare le loro esperienze. 

Liberarsi di un peso - «Si tratta di casi di abusi sessuali avvenuti in ambito religioso e ormai prescritti», ci spiega Myriam Caranzano, presidente di GAVA. «Le vittime erano già note: si erano fatte avanti in passato, ma oggi hanno scelto di rivolgersi a noi per raccontare di nuovo le loro esperienze. Subire abusi sessuali da bambini è un trauma che lascia segni profondi e duraturi. Anche dopo molti anni, può emergere il bisogno di essere ascoltati da qualcuno che sappia accogliere quel dolore».

GAVA si impegna a far risuonare la voce delle vittime fino ai vertici della società, «affinché non resti inascoltata». Il gruppo si propone come nuovo tassello, neutrale e indipendente, dove professionisti e vittime si mettono a disposizione per dare un prezioso supporto ad altre vittime. Attualmente, tre professionisti con lunga esperienza nell’ascolto di vittime rispondono alle telefonate. Altre tre persone invece stanno ultimando la formazione. 

Le necessità delle vittime - Durante gli incontri alcune vittime hanno chiesto di poter parlare anche con mons. Alain de Raemy, l’amministratore apostolico della Diocesi di Lugano. Ma quali sono le esigenze più comuni emerse durante i primi otto mesi? «Queste persone in generale hanno bisogno di essere credute», continua Myriam Caranzano. «Spesso la vittima ha paura di parlare perché è stata convinta, da chi ha commesso l’abuso, che nessuno le crederà».

Purtroppo non è l’unico ostacolo che frena il percorso di apertura. «Il bambino spesso cresce con la convinzione che la colpa sia sua. Ricevere, anche dopo molti anni, la conferma che non lo è mai stata è fondamentale per iniziare a guarire».

Un effetto domino - Negli ultimi mesi, diversi casi hanno ricevuto ampia attenzione mediatica. Ma il lavoro dei media può avere un impatto positivo? «Abbiamo osservato che, sia in Romandia sia nella Svizzera tedesca, le testimonianze delle vittime e le pubblicazioni sui media generano un effetto domino: incoraggiano altre persone a raccontare la propria esperienza. Spesso, chi ha subito una violenza si sente solo, convinto di essere l’unico. Sapere che non è così può fare la differenza».

Ogni testimonianza, anche anonima, è preziosa: consente ai ricercatori dell’Università di Zurigo - che proseguono l’indagine avviata nel 2022 e già culminata in un primo rapporto nel settembre 2023 - di completare il proprio lavoro, includendo anche la Svizzera italiana. Una regione dove, purtroppo, «parte del materiale d’archivio della Diocesi è andato distrutto e dove le vittime, più che altrove, faticano a trovare il coraggio di fare un passo avanti».

«Il problema c'è e va affrontato» - E ancora: «I racconti permettono di fare chiarezza. Ed è l’unico modo per venirne a capo, anche in un’ottica di prevenzione futura. Bisogna riconoscere che il problema esiste. Chiudere gli occhi, evitare gli studi e le analisi, il lavoro dei ricercatori diventa superficiale e non risolve niente».

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