«Svizzera invisibile agli occhi degli Usa, Keller-Sutter doveva coccolare l'ego di Trump»

Il fallimento delle trattative che ha portato alla missione d'emergenza di Berna negli States analizzata da uno svizzero ex-insider alla Casa Bianca: «È un errore che commettiamo da decenni».
ZURIGO - La Consigliera federale Karin Keller-Sutter ha recentemente dichiarato di aver instaurato un rapporto buono e costruttivo con Trump. Ma la verità è che lui non sa nemmeno chi lei sia e con lo spauracchio dei suoi dazi al 39% ha fatto tremare tutta l'economia svizzera. Ma come siamo arrivati a questo punto?
20 Minuten lo ha chiesto a Pascal Niedermann, svizzero e per anni consulente per la Commissione Finanze del Congresso degli Stati Uniti e pure membro dell'Export Council durante il governo di George W. Bush.
«Non è affatto un fulmine a ciel sereno, è piuttosto un fallimento che si tramanda da decenni da parte di Berna e della sua diplomazia».
Niedermann parla per esperienza diretta: «Prima e durante il mio incarico presso la Commissione ho incontrato quotidianamente rappresentanti politici e imprenditoriali di tutto il mondo, nessuno dalla Svizzera ci ha mai contattato. Né mi è mai capitato di incrociare un rappresentante della Confederazione in nessuno degli innumerevoli incontri, conferenze o dialoghi commerciali. La Svizzera semplicemente agli occhi di Washington non esisteva . Pur considerandosi ben collegata a livello internazionale, era invisibile dove contava davvero».
E da allora la situazione non è cambiata?
Dopo il disastro dei negoziati diplomatici con gli Stati Uniti, iniziati nel 2009 che ci sono costati il segreto bancario e definitivamente sanciti nel 2017 con lo scambio automatico di informazioni, ci si sarebbe aspettati che la Svizzera avesse imparato la lezione. Ma non è così.
Il recente fiasco dei dazi lo ha purtroppo dolorosamente confermato. Storicamente, la Confederazione dovrebbe essere un negoziatore di prim'ordine. Dopotutto, si è affermata con forza come Paese neutrale nella politica globale per secoli. Ma per qualche ragione, da decenni sta perdendo fatalmente nei negoziati cruciali con gli States.
Secondo lei cosa è andato storto esattamente questa volta?
Sebbene la buona volontà fosse evidente, l'approccio è stato tutt'altro che perfetto. Sebbene Berna si fosse preparata bene per i colloqui, non aveva un'idea chiara e pragmatica di come si conclude un “deal” negli Stati Uniti, così come quali potevano essere gli attori interni che avrebbero potuto mediare a suo favore. È sempre la stessa storia, la Svizzera non è riuscita a costruire relazioni efficaci con le persone che contano davvero alla Casa Bianca.
Stando alla sua esperienza, quale sarebbe l'approccio giusto?
È fondamentale sapere con chi parlare e come. Non solo i politici di alto rango hanno un'influenza significativa sulle decisioni, ma anche i membri dello staff di rango inferiore. Tuttavia, va detto, anche la consigliera federale Karin Keller-Sutter si è sbagliata nei suoi giudizi sul comportamento di Trump.
In che senso?
Non gli ha concesso abbastanza da farlo apparire come un buon mediatore agli occhi dell'opinione pubblica americana e ha fatto troppo affidamento sui propri punti di forza. Solo perché Trump dice che una telefonata è andata bene non significa che l'accordo sia concluso. Per trattare con lui nel modo migliore è necessario un rapporto diretto, informale e disteso. Ed è proprio questo che è venuto a mancare.
Cos'altro può fare il Consiglio federale prima che i dazi entrino in vigore?
Ora deve convincere adeguatamente Trump dell'offerta svizzera. Il modo migliore per riuscirci è presentare i principali accordi strategici in modo che siano percepiti come successi di Trump, non come proposte svizzere. Deve sembrare qualcosa di unico ed eccezionale, qualcosa in grado di portare un fiume di dollari negli Stati Uniti.
Che ne pensa del fatto che a Berna si siano recati in due?
È molto positivo. I negoziati si finalizzano di persona. Trump non prende decisioni sulla carta, ma attraverso il contatto diretto, meglio ancora se sul campo da golf. Per un attore fortemente egocentrico, impulsivo come Trump, il dialogo faccia a faccia conta più di qualsiasi protocollo.
E cosa succederà alle relazioni tra Confederazione e Stati Uniti dopo questo nuovo momento di tensione?
Ciò che non deve assolutamente accadere è che si lavori in modalità crisi per una settimana per poi tornare all'approccio precedente. Non può essere che noi, come Svizzera, continuiamo ad avere la peggio nei negoziati chiave con un attore-chiave come gli Stati Uniti.
Cosa deve cambiare?
Il cambiamento richiede innanzitutto riconoscere i propri difetti e la volontà di cambiare mentalità. Lontano dagli stereotipi e orientato alle vendite. La Svizzera deve agire con equilibrio: sicura, concentrata e ben presente attraverso la costruzione continua di relazioni. Washington non rispetta la retorica amministrativa, ma piuttosto l'impatto. Chi vuole avere successo deve sentirsi a proprio agio anche nel disagio.









































