L'oro svizzero come leva contro Trump

Un economista svela quale strategia adottare per riportare il presidente degli Stati Uniti sui suoi passi
BERNA - I dazi punitivi del 39% imposti dal presidente statunitense Donald Trump tolgono il sonno a molti. Ora, sulle pagine dei quotidiani Tamedia, un economista indica una strada per spingere Trump a rivedere la sua decisione. In gioco c’è nientemeno che l’oro - passione del tycoon - di cui la Svizzera è il principale esportatore verso gli Stati Uniti.
Adriel Jost - consulente all’Istituto di Politica Economica Svizzera dell’Università di Lucerna, docente all’Università di San Gallo (HSG) e presidente del think tank Liberethica - ha le idee chiare. Chiama in causa direttamente la Banca nazionale svizzera (Bns) e non usa mezzi termini: «Bisogna vendere titoli di Stato di Paesi fortemente indebitati, come gli Stati Uniti, e comprare oro». Non parla a cuor leggero: in passato Jost è stato consigliere del vicepresidente del Consiglio direttivo della Bns e capo economista di Wellershoff & Partners.
Dall’oro ai titoli di Stato: tre mosse strategiche - Ma in cosa consiste la sua proposta? Si articola in tre fasi. Innanzitutto, «la Svizzera dovrebbe vietare l’esportazione di oro verso gli Stati Uniti», spiega Jost. D’altronde, «un dazio del 39% equivale già a un divieto di esportazione di fatto». Come ha ricordato il CEO di Swatch, Nick Hayek, sulle pagine del Blick: «Se Trump non impone dazi sull’oro svizzero, significa che si andrebbe a toccare un punto debole». Un vero tallone d’Achille «da sfruttare», secondo Jost.
Il secondo passo prevede un intervento diretto sui titoli di Stato. Stando a quanto riportato sui quotidiani, la Bns detiene circa 300 miliardi di dollari in bond statunitensi a lungo termine, di cui due terzi, circa 200 miliardi, direttamente nel proprio bilancio. In totale, alla fine di giugno 2024, istituzioni e aziende svizzere possedevano 1.194 miliardi di dollari in titoli USA, piazzando la Svizzera all’ottavo posto fra i creditori di Washington, subito dietro la Cina. In cima alla classifica figura il Regno Unito, con 2.946 miliardi.
Infine, il terzo passo: Dopo aver venduto i titoli di Stato Usa, «la Bns dovrebbe reinvestire il ricavato per comprare oro, preferibilmente negli stessi Stati Uniti», sottolinea Jost. «I lingotti andrebbero poi trasformati, nelle raffinerie svizzere, dal formato da un chilogrammo a quello da 400 once, più richiesto nel Regno Unito. In America, invece, sono preferiti i lingotti piccoli: un canale di scambio strategico che rafforzerebbe il ruolo cruciale delle raffinerie rossocrociate nel mercato globale dell’oro».
«Serve un segnale forte» - Queste mosse, secondo l’economista, ridurrebbero bruscamente l’eccedenza commerciale con gli Stati Uniti. «Gli effetti potrebbero essere spiacevoli per Washington, come già dimostrano le turbolenze causate dall’annuncio dei dazi sull’oro svizzero», afferma Jost. «Un segnale così deciso potrebbe indurre il presidente Trump a maggiore disponibilità al negoziato».
Nel frattempo, non sono solo gli economisti a indicare la necessità di reagire. Anche negli ambienti della politica c’è chi chiede di mettere in discussione il peso dei titoli statunitensi nei portafogli svizzeri. Nik Gugger, consigliere nazionale del Partito evangelico svizzero (EPV) ed esperto di libero scambio, invita la Bns ad agire: «Dovrebbe rivedere pubblicamente la propria allocazione o trasferirla gradualmente sull’oro», dichiara.
















