Trump e quel divieto, non è la prima volta

Il presidente statunitense firmò un provvedimento simile nel 2017. Dopo caos e proteste, la versione rivista fu approvata dalla Corte Suprema nel 2018 e, infine, abrogata nel 2021 da Joe Biden, che la definì «una macchia» sulla coscienza del Paese
WASHINGTON D.C. - Una questione di «buonsenso». Così il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha motivato il divieto d'ingresso nel Paese, annunciato nelle scorse ore, all'indirizzo dei cittadini di altre dodici nazioni. Una mossa tutt'altro che inedita da parte del tycoon, che nel 2017, durante il suo primo mandato, aveva apposto la firma su un ordine esecutivo del tutto simile.
I paesi colpiti dal divieto, lo ricordiamo, sono Afghanistan, Myanmar, Ciad, Repubblica del Congo, Guinea Equatoriale, Eritrea, Haiti, Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen. A questi, si aggiungono poi parziali restrizioni per Burundi, Cuba, Laos, Sierra Leone, Togo, Turkmenistan e Venezuela. E, a completare il tutto, sono inoltre previste alcune eccezioni.
Quando adottò, nel 2017, un provvedimento simile - diretto in buona parte agli stessi Paesi colpiti oggi -, la decisione fu bollata dai contrari come una mossa con motivazioni razziali; una sorta di "Muslim Ban", ovvero un divieto rivolto a paesi caratterizzati da una popolazione a maggioranza musulmana. Nell'immediato le conseguenze furono quelle che tipicamente si riverberano ogni volta che Trump è solito vergare la sua firma su qualche documento, riassumibili con una parola: caos.
Il caos negli aeroporti e per le strade, con l'esplosione di numerose proteste. E poi il caos legale, a colpi di battaglie (probabile epilogo anche di questo nuovo divieto), concluso nel giugno 2018, quando la Corte Suprema approvò infine una versione rivista del provvedimento. Questo fu poi abrogato nel 2021 da Joe Biden, che lo definì «una macchia sulla nostra coscienza nazionale».