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LUGANO

Travolti dall'odio dei social. Dove abbiamo sbagliato?

Insulti e minacce sulle piattaforme avvelenano le nostre vite. Perchè odiamo dietro alla tastiera? Nicholas Sacchi, psicologo: «È una forma di "non socialità" che dà comunque l’illusione di appartenere a un gruppo»
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Travolti dall'odio dei social. Dove abbiamo sbagliato?
Insulti e minacce sulle piattaforme avvelenano le nostre vite. Perchè odiamo dietro alla tastiera? Nicholas Sacchi, psicologo: «È una forma di "non socialità" che dà comunque l’illusione di appartenere a un gruppo»

LUGANO - È una situazione ormai fuori controllo. L'odio che quotidianamente viene espresso attraverso i social è un fenomeno che non ha più argini. Offese, ingiurie, minacce, aggressioni verbali si moltiplicano dietro lo schermo di un PC, protetti dall’anonimato e invadano blog e piattaforme social. Un clima che avvelena il dibattito pubblico e colpisce soprattutto i più giovani, esponendoli a bullismo digitale e isolamento. Eppure sembrava che i social fossero nati per socializzare, per unire gruppi che avevano interesse e passioni comuni. Dove o cosa abbiamo sbagliato? La domanda la rivolgo a Nicholas Sacchi, psicologo di Lugano.

«Non so se c’è un errore di fondo. Non sono così convinto che i social siano davvero nati per diventare una piazza di libera espressione. Di certo lo strumento di per sè canalizza tutta una serie di pulsionalità. Rapidamente abbiamo assistito alla trasformazione di tutte le piattaforme sociali in spazi commerciali in grado di catturare l’attenzione. L’intero design della struttura informatica è stato fondamentalmente creato non tanto per una libera espressione quanto piuttosto per una continua attenzione verso un prodotto e verso una ideologia».

Esiste un profilo psicologico ricorrente di chi scrive messaggi di odio online ?
«Direi che la risposta è sia no che sì. No, perché la psicologia sociale ci insegna – e la storia lo conferma – che anche persone normalmente miti, in determinate condizioni socio-politiche o demografiche, possono trasformarsi e compiere atti estremi. Questo non significa, ovviamente, che i social abbiano lo stesso potere di trasformazione, ma ci ricorda che chiunque può essere influenzato da un contesto. , invece, se guardiamo a situazioni in cui esiste una fragilità di fondo, una vulnerabilità o addirittura una patologia. L’esposizione continua a contenuti aggressivi, a stili comunicativi polarizzanti e spesso narcisistici – in cui il contraddittorio non trova spazio – può alimentare un clima che esaspera le idee e, di conseguenza, i comportamenti. In assenza di filtri solidi, sociali ma anche personali (legati alla personalità e al temperamento), diventa più difficile mantenere la giusta distanza critica dalle provocazioni e dalle dinamiche di aggressività che i social spesso amplificano».

Perché alcune persone sentono il bisogno di insultare, denigrare. Cosa spinge a lasciare un commento offensivo?
«La struttura stessa di Internet, che garantisce in larga parte l’anonimato, favorisce questo tipo di comportamento. Ne approfittano soprattutto persone che vivono una condizione di isolamento, che hanno pensieri ricorrenti e negativi, e che spesso si trovano in difficoltà – per caratteristiche personali o per un momento della loro vita – a costruire relazioni autentiche e profonde. In questo contesto, l’insulto o l’aggressività diventano per loro una sorta di surrogato della presenza: una forma distorta di socialità che, pur essendo una “non socialità”, dà comunque l’illusione di appartenere a un gruppo, di essere parte di una collettività».

Spesso vengono presi di mira in maniera violenta personaggi famosi, politici. Anche con minacce di morte.
«La celebrità e l’iperesposizione pubblica – che sia sul palco di un grande concerto, sullo schermo o sui social network – espongono inevitabilmente chi ne è protagonista a dinamiche di invidia e ostilità. È come se, di fronte al successo altrui, molte persone avvertissero il bisogno di ridimensionarlo, di attaccarlo, quasi per difendersi. Non è un meccanismo che riguarda solo le star internazionali: lo vediamo anche nelle relazioni quotidiane, con il collega, il vicino o la vicina di casa. Fa parte di una tendenza umana che non significa che l’uomo “sia fatto per invidiare”, ma che riflette il bisogno, dentro un tessuto sociale, di misurarsi costantemente con gli altri. Quando manca una realizzazione personale autentica, il successo altrui può diventare una ferita profonda, che genera disagio. E spesso è da quel disagio che nascono le forme più violente di attacco e denigrazione».

Ritiene che l'odio online possa spingere una persona verso la depressione o addirittura a sviluppare pensieri di suicidio?
«Purtroppo la cronaca ci racconta diversi casi in cui il cyberbullismo o il revenge porn hanno portato alcune persone a togliersi la vita. Questo può far pensare a un rapporto di causalità diretta tra odio online e suicidio. Personalmente, ritengo che la realtà sia più complessa. Non è corretto parlare di “debolezza”, ma certamente esistono fragilità strutturali, esperienze pregresse e contesti difficili – familiari, sociali, scolastici o lavorativi – che rendono alcune persone più vulnerabili. Spesso chi subisce attacchi online è già stato messo “alle corde” da un ambiente che non ha saputo comprendere o accogliere i suoi bisogni. In certi casi la richiesta di aiuto è stata persino espressa chiaramente, ma non ascoltata: questo aggrava ulteriormente la sofferenza. I social, da parte loro, funzionano da amplificatori. Accelerano e intensificano i bisogni di aggressività e di ostilità, rendendo l’impatto sull’individuo molto più pesante. Così, chi si trova in una condizione di vulnerabilità finisce per soffrire in maniera ancora più profonda».

Qual è il modo per difendersi, per restare integri a livello mentale?
«Ci sono due piani da considerare. Da un lato, quello collettivo: non si può lasciare soltanto al singolo la responsabilità di cavarsela quando è immerso in una situazione negativa come il bullismo o altre forme di pressione sociale. Qui serve un intervento comunitario, per quanto non risolutivo o definitivo: ad esempio, regole più chiare e controlli più rigorosi sull’uso corretto delle chat e delle piattaforme digitali. Certo, questo apre questioni delicate — come il rischio di ledere la privacy o limitare la libertà di espressione — che vanno affrontate con attenzione etica. Dall’altro lato, c’è un aspetto che spesso dimentichiamo: la libertà di non esserci. La nostra presenza sui social è diventata talmente pervasiva da confondere la nostra identità reale con quella virtuale, al punto che staccare il telefono, uscire da una piattaforma o ignorare certi contenuti ci appare quasi impossibile. Per questo è fondamentale educare fin dall’inizio ragazze e ragazzi — ma anche gli adulti — a riconoscere i rischi di dipendenza che i social inevitabilmente comportano. Sono strumenti utili, divertenti, spesso indispensabili, ma costruiti appositamente per generare dipendenza. Imparare a usarli in modo consapevole, senza farsi usare da essi, è la vera forma di difesa».

Meglio lasciar perdere oppure rispondere a un’offesa?
«Se una persona ha la forza interiore di prendere le distanze dall’identità virtuale che si è costruita e di riconnettersi alla propria identità reale, allora ignorare l’offesa e scegliere il silenzio è spesso la strada migliore. È un atto di protezione e di libertà. Se invece si hanno le risorse per distinguere con chiarezza che l’attacco non nasce da ciò che si è, ma dalla frustrazione di chi lo compie, allora anche una risposta può avere senso. L’importante, però, è darsi dei limiti: rispondere una volta, chiarire, e poi fermarsi. Altrimenti si rischia di cadere in un confronto infinito, senza via d’uscita».

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