Il Ticino visto dallo skate: «Una passione così grande da superare qualsiasi dolore»



Esce oggi “Skate Borders”, documentario sulla storia della scena degli skater della Svizzera italiana e che racconta la loro, indomabile, lotta per spazi e accettazione
Esce oggi “Skate Borders”, documentario sulla storia della scena degli skater della Svizzera italiana e che racconta la loro, indomabile, lotta per spazi e accettazione
LUGANO - Una sottocultura giovanile che scalpita per trovare il proprio spazio e lasciare il segno sul territorio. Questa volta, però, non si tratta di rime a suon di beat ma di grind, ollie & co.
“Skate Borders”, gioco di parole fra «tavola» e «frontiere», è il secondo lavoro da autore di Pablo Creti, affiancato anche questa volta dal regista Nick Rusconi e ripercorre le gesta degli skater ticinesi dai primi anni '90 fino a oggi.
Quello che ne emerge è un ritratto inedito, da un punto di vista originale dal quale è difficile non venire - in qualche modo - stregati.
RSI
Come nasce “Skate Borders”? Lo abbiamo chiesto proprio a Pablo Creti.
È un po’ un seguito, anche se non in senso stretto, del documentario Sulla mappa, il primo progetto Digital First che abbiamo realizzato in RSI l’anno scorso, dedicato alla scena rap della Svizzera italiana. Questa volta ci siamo spostati su un’altra sottocultura, quella dello skate.
Lo spunto è stato l’apertura dello skate park di Mendrisio, che sarà inaugurato proprio questo venerdì 5 settembre.
Siamo partiti da quella “battaglia” degli skater del Mendrisiotto per ottenere uno spazio, per raccontare non solo la cultura skate, ma più in generale il bisogno e la richiesta di spazi da parte delle sottoculture e dei giovani nella Svizzera italiana.

Come può una semplice tavola di legno con quattro rotelle cambiare la prospettiva con cui si vede il mondo?
In due sensi. Da un lato gli skater stessi cambiano prospettiva: una panchina per te e me è un posto in cui sedersi, per loro diventa un ostacolo per un trick. Le piazze, i corrimano, gli angoli di città che non immagineresti mai diventano luoghi “valorizzati” in modo creativo. Dall’altro lato anche la città viene reinterpretata: lo sguardo dello skater trasforma lo spazio urbano.
Quello che mi ha colpito molto stando con loro per mesi è l’ossessione, la passione e la resilienza che hanno. Lo skate sembra naturale quando li guardi, ma dietro c’è una costanza incredibile: puoi cadere duecento, trecento volte prima di riuscire a chiudere un trick. E continui, finché non ti riesce. È una vera ossessione che diventa vita.
Nel documentario emerge anche quanto, effettivamente, sia difficile andare in skate. È una disciplina che diventa quasi un mantra personale?
Esatto. Sembra retorico, ma è davvero una questione mentale oltre che fisica. Lo skate ti abitua all’idea che cadrai, che ti farai male, e che non ti riuscirà al primo tentativo. Sei sul cemento, una delle superfici più dure in assoluto, eppure continui. Devi accettare il fallimento e riprovare. Questo set mentale ti forma e, secondo me, ti rimane anche nella vita quotidiana.

Un altro tema forte è la ricerca della libertà. Gli skater vogliono libertà, ma anche accettazione sociale. Una dicotomia particolare, no?
Sì, è una tensione molto interessante. Da un lato vogliono vivere gli spazi a modo loro, reinterpretando la città. Dall’altro chiedono di essere accettati. È un dialogo: loro ti dicono «guarda come usiamo la città, guardaci e scopri qualcosa di nuovo insieme a noi».
Come spiega Igor Ponti, fotografo ed ex skater, ci vogliono entrambe le cose: tolleranza e opportunità. La città e le istituzioni devono imparare a convivere con una sottocultura così ricca e creativa. Non è solo skate: è grafica, arte, fotografia, video, organizzazione di eventi. È una cultura a 360 gradi che arricchisce tutti.
Le autorità, però, sembrano abbastanza propense a concedere spazi. Già da tempo ci sono skate park sostenuti da comuni e cantoni. Non basta?
È vero, ma c’è un rischio. Lo skate park non deve diventare una gabbia. Loro vogliono spazi permeabili, centri di aggregazione, non solo rampe dove fare trick. Un luogo di incontro permette anche a chi non conosce lo skate di entrarvi in contatto: un bambino che passa, vede gli skater e si incuriosisce. In questo modo la cultura si rigenera.

A proposito, nel documentario si parla un po' anche del problema del “ricambio generazionale”...
Sì, è un aspetto che mi ha colpito. I più giovani hanno comunque 25-26 anni. Manca un vero ricambio. Le ragioni, a mio avviso, sono soprattutto due: in primis la mancanza di veri centri di aggregazione o di spazi “ibridi” dove la popolazione - e nella fattispecie i più giovani - possano vedere all'opera gli skater.
L'equazione è semplice: se non vedi nessuno che skata, difficilmente ti verrà voglia di farlo e di scoprire questo mondo. Un altro aspetto da non sottovalutare è la difficoltà, e l'impegno, di quella che è una vera e propria disciplina: oggi siamo tutti abituati ad avere tutto subito. Lo skate, invece, richiede mesi di cadute prima di riuscire a chiudere un trick particolare e raggiungere il risultato.
Pazienza e dedizione che oggigiorno sono qualità rare non solo fra i giovani, ma anche fra gli adulti.
Disponibile proprio da oggi, 5 settembre, su Play RSI il documentario “Skate Borders” verrà mostrato oggi sul grande schermo anche in quel di Mendrisio. A questa ne seguiranno altre due a Lugano e Locarno.