«Si tolse la vita per... uno scherzo»


La madre di Andrea - 15enne che si è tolto la vita perché vittima di bullismo e che ha ispirato il film "Il ragazzo dai pantaloni rosa" - arriva in Ticino per parlare di giovani, cyberbullismo e smartphone.
MASSAGNO - Bullismo, cyberbullismo e ruolo degli smartphone. Sono questi i temi che saranno trattati sabato 13 settembre al Cinema Lux di Massagno (ore 20:15, ingresso gratuito fino ad esaurimento posti) in seguito alla proiezione del film “Il ragazzo dai pantaloni rosa”.
Ospite della serata - organizzata dal Club dei Mille (e legata all'iniziativa popolare “Smartphone: a scuola no”) -, Teresa Manes, madre di Andrea Spezzacatene, il 15enne italiano di cui narra il film e che il 20 novembre del 2012 si tolse la vita impiccandosi proprio perché sopraffatto dal peso di bullismo e cyberbullismo.
Con Teresa abbiamo cercato di fare chiarezza su un tema che, a quasi 13 anni di distanza, è ancora di strettissima attualità.
La prima domanda che uno si pone è se vi fossero dei segnali che sono stati ignorati?
«Con Andrea avevo un rapporto che, tutt’oggi, non ho con l’altro figlio. Un rapporto che credevo aperto, impostato sul dialogo. Parlavamo tanto, ma alla fine non abbiamo parlato di niente. Perché tutte queste criticità le ha tenute dentro di sé e credo che sia stato un crescendo che si è portato dentro giorni, mesi, fino ad arrivare ad un anno interno. Ha subito e non si vedeva, perché il bullismo è un fenomeno multiforme. Non c’è soltanto quello fisico, che ti fa tornare a casa con l’occhio nero e rivela i segni visibili di un problema. Lui all’apparenza si mostrava come un ragazzo solare. Con le sue giornate no, ma come tutti gli adolescenti. In quel periodo aveva questo forte innamoramento per questa ragazza, Sara nel film, e non era corrisposto. Sono dinamiche che chiaramente causano sofferenze. Io pensavo che alcuni suoi momenti di sofferenza fossero attribuibili a questo. Invece era vittima di violenza psicologica, che è subdola. Si insinua lentamente fino a far sentire la vittima meritevole di quello che gli sta accadendo, alimentando un senso di inadeguatezza che lo fa sentire fuori posto, sbagliato».
Come ha saputo che si trattava di bullismo?
«Quando è accaduto ero al telefono con il mio ex marito proprio mentre entrava in casa e si trovava di fronte al fatto compiuto. Sono stata io ad allertare la polizia. Sei giorni prima eravamo a casa a festeggiare il suo compleanno. Sembrava tutto nella norma. Inizialmente ho pensato che potessero essere state la delusione amorosa e la separazione dei genitori a portarlo a quel gesto. Solo in seguito, durante una telefonata con la rappresentante di classe, ho scoperto che Andrea era diventato caso di cronaca. Mando mio fratello a comprare il giornale e trovo il suo caso sbattuto in prima pagina. C’era la foto di mio figlio con indosso una parrucca, etichettato come “il ragazzo dai pantaloni rosa”. Dopo una serie di indagini sul suo computer - avevo le password - scopro il crescendo di inconsapevolezza che ha portato a quanto accaduto e che è ciò che mi ha spinto a girare per le scuole. Quello che può essere considerato solo uno scherzo per qualcuno può essere una lama in grado di ferire profondamente».
Lei disse che la scuola sapeva.
«All’epoca non si parlava di bullismo nelle scuole. Si metteva la testa sotto la sabbia. Per contrastare quest'ombra sociale non bisogna far finta di niente, non bisogna voltarsi dall'altra parte. Il bullismo si nutre dell’indifferenza».
Una ragione del successo del film è sicuramente il fatto che parli di un luogo molto abitato dai ragazzi di oggi, i social.
«Che per i ragazzi sono anche un rifugio. Qui costruiscono la propria identità, cercano delle risposte. Ma se non si è educati adeguatamente all'uso delle piattaforme si può diventarne vittime».
All'epoca erano i primi anni dei social network, nessuno conosceva i rischi potenziali di questi strumenti. Da allora sono state tante le storie come quella di Andrea. E gli smartphone hanno preso piede. Cosa è cambiato?
«Non molto, ma qualcosa si è mosso. Nelle scuole, ad esempio, ci sono stati degli interventi normativi che hanno obbligato ad aprire le porte a queste opere di sensibilizzazione. Significa riconoscere l’esistenza di un problema e cercare di prevenirlo. Certo, si potrebbe fare di più. Mi piacerebbe che la scuola fosse una comunità nella comunità e non solo un luogo deputato alla formazione. È qui, infatti, che i ragazzi si aggregano, che passano gran parte del loro tempo. Questo non vuol dire gettare tutta questa responsabilità sugli insegnanti. Serve del personale esterno che viva all’interno dell’istituto scolastico. Lo sportello dello psicologo ad esempio è importantissimo».
Sperare che le cose sui social cambino invece è un’utopia.
«Se andiamo a ben vedere, siamo noi adulti i primi a dare il cattivo esempio. Siamo i primi a proporci con violenza, aggressività. Ci sentiamo in diritto di poter intervenire su tutto noncuranti delle ricadute che il nostro pensiero potrebbe avere».
Ma è solo colpa dei social?
«Sarebbe ipocrita crederlo. Non posso dire che mio figlio sia stato ucciso solo dal bullismo. Sono state tante cose a farlo. Tra queste, certamente, un senso profondo di solitudine. Io per prima quindi devo riconoscere le mie colpe. Tuttavia bisogna educare all’uso responsabile della rete. E non solo alla violenza espressa gratuitamente. Un ragazzino che si mostra a petto nudo a 10 anni non sa che quell’immagine non si cancella. Non sa che utilizzo ne può essere fatto».
Lei ha detto che le parole possono essere lame, ma in diverse interviste le ha anche descritte come pietre, con le quali si può costruire. Lei lo ha fatto attraverso il libro “Andrea oltre il ragazzo dai pantaloni rosa", e lo sta facendo incontrando i ragazzi nelle scuole. Come stanno i giovani oggi?
«I giovani hanno bisogno di autenticità. Non è vero che non ci ascoltano, ma se vogliamo trovare la chiave per comunicare con loro dobbiamo usare un linguaggio ripulito dalla retorica. Solo così possiamo aprirci un varco per portare loro dei contenuti».