L’appello: «Basta con la narrazione tossica sulla migrazione»


Ne abbiamo parlato con Ivan Ureta, co-direttore del Master in Sicurezza interna all'università di Ginevra
Ne abbiamo parlato con Ivan Ureta, co-direttore del Master in Sicurezza interna all'università di Ginevra
GINEVRA - «Invasione», «minaccia islamica» e «straniero criminale». Sono alcuni termini che, se usati in maniera strumentale, possono alimentare stereotipi, paure e stigmatizzazioni. Con Ivan Ureta, direttore della Executive Education presso il Geneva Centre for Security Policy e co-direttore del Master in Sicurezza interna dell'università di Ginevra, abbiamo analizzato il fenomeno migratorio e come viene raccontato dai media e dalla politica.
Spesso, nel dibattito pubblico (alimentato anche dai media) non si fa distinzione tra migranti e richiedenti l’asilo: secondo lei è un problema?
«Sì, ci sono molti miti a questo riguardo che bisogna sfatare, ed è importante farlo e insistere. Può portare a incomprensioni e generalizzazioni ingiustificate. I migranti possono spostarsi per motivi economici, familiari o per altre ragioni, mentre i richiedenti l'asilo sono persone che fuggono da conflitti, persecuzioni o violazioni dei diritti umani. Si tratta di uno status completamente diverso».
È importante che l’opinione pubblica non confonda i due concetti?
«La confusione può portare a una visione semplificata e fuorviante del fenomeno migratorio. I richiedenti l'asilo hanno diritto alla protezione internazionale, mentre i migranti economici cercano opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita. Confondere questi due gruppi può minare il rispetto dei diritti umani e favorire atteggiamenti di chiusura e intolleranza, indebolendo anche le politiche di integrazione e di accoglienza giuste ed equilibrate».
In che modo?
«Non fare distinzione tra migranti economici e richiedenti l'asilo può alimentare stereotipi e stigmatizzare persone vulnerabili che, in molti casi, stanno cercando protezione internazionale. Inoltre, crea una narrazione distorta della realtà migratoria, riducendo la comprensione delle diverse motivazioni che spingono le persone a migrare».
Il tema dei richiedenti l’asilo è molto presente nel dibattito politico. Dal suo punto di osservazione, negli ultimi anni si è ulteriormente radicalizzato?
«Sì, e spesso in modo negativo. Questo è dovuto principalmente alla crescente politicizzazione (e, in alcuni casi, anche alla criminalizzazione) della migrazione, in particolare da parte di alcune forze politiche che sfruttano il tema per alimentare paure e divisioni all'interno della società».
Come mai?
«Alcuni gruppi politici cercano di dipingere i migranti e i richiedenti l'asilo come una minaccia alla sicurezza, alla cultura e alle risorse dei Paesi di accoglienza. Questi argomenti tendono a essere utilizzati per mobilitare il sostegno elettorale, ma rischiano di distorcere la realtà».
Questo fenomeno ha precedenti storici?
«La demonizzazione dei migranti ha preceduto momenti di grande tensione sociale e politica, come si è visto in varie epoche. Ad esempio, negli anni '30, durante la Grande Depressione, i discorsi xenofobi e antisemiti hanno contribuito alla radicalizzazione delle società europee, preparando il terreno per l'ascesa dei totalitarismi e per conflitti devastanti, come la Seconda Guerra Mondiale».
Quale sarebbe il compito dei politici?
«La loro responsabilità è enorme. Soprattutto in tempi di grande potenziale di conflitto, come quelli attuali. I leader hanno il dovere di non sfruttare la migrazione e i richiedenti l'asilo come strumenti di polarizzazione e divisione. Dovrebbero, invece, promuovere un dibattito informato e rispettoso, basato sui dati e sulla realtà delle situazioni, facendo attenzione a non ingigantire temi complessi per scopi elettorali».
Come viene strumentalizzato il tema migranti?
«La questione è stata sempre più strumentalizzata negli ultimi tempi. Soprattutto a partire dagli inizi degli anni 2000, con l'intensificarsi della migrazione internazionale dovuta a conflitti, crisi economiche e cambiamenti climatici. I discorsi pubblici hanno preso una piega sempre più polarizzata, specialmente in contesti di crisi globale o di insicurezza».
Nel biennio 2014 - 2015 l’Europa ha avuto un aumento significativo di richiedenti l'asilo provenienti da Siria, Afghanistan, e altre zone di conflitto...
«Molti partiti populisti hanno usato questa crisi per promuovere una retorica contro i migranti, con slogan come "l'invasione" e "la minaccia islamica". L’uso strumentale ha portato a un rafforzamento delle politiche restrittive, ma ha anche avuto effetti negativi sulle percezioni pubbliche, portando a un aumento della xenofobia e dell’intolleranza in molti Paesi».
Quali sono le parole che, nel descrivere e raccontare il fenomeno migratorio, bisognerebbe evitare?
«È fondamentale evitare parole e concetti che alimentano stereotipi, paura e stigmatizzazione. Termini come "invasione", "emergenza", "straniero pericoloso" o "criminale" sono altamente problematici, in quanto dipingono i migranti come una minaccia per la società di accoglienza. Questi termini non solo sono fuorvianti, ma riducono la complessità della migrazione a una narrazione semplicistica e spaventosa. In questo modo, si nega la dimensione umana del fenomeno e la sua storicità».
Cosa comporta la criminalizzazione?
«È importante ricordare che la migrazione è una forza storica fondamentale che ha modellato la storia dell’umanità. Non si può comprendere l’evoluzione delle società, delle culture e delle economie senza considerare lo spostamento umano. Dall'antichità, gli esseri umani si sono mossi, hanno migrato per ragioni di sopravvivenza, di commercio, di guerra, ma anche per cercare una vita migliore. La migrazione ha sempre avuto un ruolo chiave nel progresso e nell’evoluzione delle civiltà. Criminalizzare la migrazione equivale a criminalizzare una delle principali forze di sviluppo ed evoluzione della storia. In altre parole, sarebbe un anti-storicismo, un rifiuto di comprendere le radici profonde della nostra storia come specie».
Quale approccio va adottato?
«È necessario adottare un approccio umano. Bisogna riconoscere la dignità e le esperienze di ciascun individuo, evitando di ridurre una persona a una statistica o a un “problema” da risolvere. Le parole che usiamo devono riflettere l’esperienza umana e non solo un’emergenza politica o un fenomeno da gestire. È essenziale parlarne con empatia, consapevolezza storica e un impegno verso l'inclusione e la solidarietà».
Di fronte alla situazione attuale, chi si occupa di comunicazione quali accortezze dovrebbe adottare?
«La sfida oggi non è solo informare, ma educare alla qualità dell'informazione. Si parla frequentemente della necessità di sviluppare il senso critico, ma ci troviamo di fronte a un grosso stress informativo che può bloccare la capacità di analisi e sintesi, anche in segmenti della popolazione che sono teoricamente più educati. In questo contesto, è fondamentale che chi si occupa di comunicazione adotti un approccio più responsabile. Gli operatori dei media e i comunicatori devono privilegiare l'approfondimento, la verifica delle fonti e la trasparenza nella trasmissione delle informazioni».
E la politica?
«Dal canto suo, la politica ha una responsabilità istituzionale nell'orientare il dibattito pubblico verso un'informazione equilibrata e precisa, evitando di sfruttare la confusione o l'emotività per scopi elettorali».
Secondo l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), circa il 3.6% della popolazione mondiale è migrante. Questo rappresenta all’incirca 281 milioni di persone (IOM World Migration Report, 2024). Inoltre, la migrazione economica si distribuisce in modo variegato a livello globale. Circa il 30-35% dei migranti si sposta tra Paesi sviluppati, come tra l'Europa e il Nord America (migrazione Nord-Nord), mentre una percentuale altrettanto significativa, circa il 37-40%, riguarda i movimenti tra Paesi in via di sviluppo (migrazione Sud-Sud). «Questi dati mostrano come la migrazione economica non riguardi solo i movimenti dal Sud al Nord, ma coinvolga anche flussi significativi all'interno delle stesse regioni in via di sviluppo».
Il fenomeno dei rifugiati e richiedenti l'asilo «è molto diverso». Secondo i dati dell’UNCHR, (UNHCR, 2024) «il numero di rifugiati nel mondo è passato dai 50 milioni nel 1994 a 122.61 milioni. Bisogna anche dire che questi dati rappresentano circa il 1.5% della popolazione mondiale e che il 69% si trova in paesi vicini ai loro luoghi di origini ( e comunque il 71% in paesi di reddito medio o basso)».