La "colpa" di non essere morti


Sono passati 80 anni dai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. E per molti sopravvissuti (detti "hibakusha") quell'inferno non è mai veramente finito
Sono passati 80 anni dai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. E per molti sopravvissuti (detti "hibakusha") quell'inferno non è mai veramente finito
HIROSHIMA / NAGASAKI - «Avevo tre anni quando ci fu l'esplosione. Non ho molti ricordi, ma ricordo che tutto attorno a me diventò completamente bianco, come se i flash di un milione di macchine fotografiche fossero scattati allo stesso momento». Dopodiché, solamente il buio. Yasujiro Tanaka - che ha raccontato la sua testimonianza al Time - è uno dei cosiddetti hibakusha. Così, in Giappone, ci si riferisce a quelli che sono riusciti a restare aggrappati alla vita nell'inferno di Hiroshima e Nagasaki.
La "colpa" di essere rimasto in vita
Non sopravvissuti ma, letteralmente, "coloro che sono stati colpiti dal bombardamento" che, ottant'anni fa - il 6 agosto su Hiroshima e il 9 su Nagasaki - ha inferto una cesura indelebile nella storia umana. Una scelta lessicale, come vedremo, molto delicata.
Hibakusha è chi si trovava nelle due città quando "il ragazzino" e "il grassone" (i nomi in codice delle due bombe atomiche erano "Little Boy" e "Fat Man", i "figli" del Progetto Manhattan, ndr.) furono sganciati. Ma lo è anche chi nelle città entrò successivamente per portare i soccorsi, restando esposto all'invisibile piaga delle radiazioni. E lo sono i figli delle donne - che rientrano in queste categorie - che erano incinte in quei giorni. Oggi, sono rimasti in meno di 100mila. E per molti la (lunga) vita dopo l'inferno è stata zavorrata da un pesante fardello. Un senso di colpa persistente nei confronti dei cari che non sono sopravvissuti. E, con esso, lo stigma sociale; soprattutto per la "seconda generazione", a lungo ostracizzata e discriminata, nella paura che questi potessero trasmettere alla propria discendenza effetti genetici nefasti.
Un trauma su larga scala e a lungo termine. Per molti hibakusha, l'inferno di quei giorni di agosto del 1945 non è mai veramente finito.
"Little Boy" e "Fat Man"
Il tempo, a Hiroshima, la mattina di quel 6 agosto di ottant'anni fa, si fermò alle 8 e un quarto; immortalate dalle lancette che l'esplosione ha paralizzato sui quadranti. "Little Boy" fu la prima delle sole due bombe atomiche utilizzate in un conflitto nella storia umana. Furono circa 140mila le persone uccise, entro la fine del 1945. E altre 75mila quelle che morirono invece a seguito, tre giorni dopo, della detonazione della seconda bomba, "Fat Man", su Nagasaki.
Shigeko Matsumoto è un'altra degli hibakusha di cui il Time, in passato, ha raccolto la testimonianza. Quel 9 agosto, si trovava a Nagasaki, a 800 metri circa dall'ipocentro dell'esplosione. «Non ci furono allarmi aerei quella mattina. Eravamo nascosti in un rifugio antiaereo ormai da giorni e, un po' alla volta, le persone cominciarono a tornarsene a casa. Stavo giocando con i miei fratelli davanti all'entrata del rifugio, aspettando che nostro nonno passasse a prenderci. Poi, alle 11:02, il cielo è diventato tutto bianco, brillante. Io e i miei fratelli siamo stati sbalzati all'interno. Non avevamo idea di quello che è era appena accaduto».
In quel rifugio, Shigeko e i suoi fratelli rimasero altri tre giorni. E senza poter dimenticare quello che videro. «Mentre eravamo lì seduti, sotto shock e confusi, molte persone con gravissime ustioni entrarono in massa» nel bunker. «La pelle si staccava dai loro corpi e dalle loro facce, penzolante, per poi cadere a brandelli sul pavimento. Avevano i capelli bruciati fino a pochi centimetri dallo scalpo. Molti di loro, non appena raggiunsero l'entrata, collassarono al suolo formando una pila di corpi. Il puzzo e il calore erano insopportabili». Una fra le decine di migliaia di istantanee, ormai indelebili nella memoria collettiva, di quell'Apocalisse.