«Internati e torturati»: le famiglie delle vittime chiedono giustizia


Sono passati tre anni dalla pubblicazione del rapporto ONU che denunciava i crimini della Cina contro le minoranze musulmane nello Xinjiang.
Sono passati tre anni dalla pubblicazione del rapporto ONU che denunciava i crimini della Cina contro le minoranze musulmane nello Xinjiang.
PECHINO - A tre anni dalla pubblicazione del rapporto delle Nazioni Unite che accusava la Cina di «crimini contro l'umanità» nella regione cinese dello Xinjiang, la situazione non è affatto cambiata. Lo dichiarano le famiglie delle vittime, sentite recentemente da Amnesty International.
Il documento denunciava i crimini commessi da Pechino nei confronti delle popolazioni uigure e altre minoranze musulmane, sottolineando che queste venivano internate arbitrariamente e torturate. Amnesty e molte altre organizzazioni non-governative avevano chiesto la loro immediata scarcerazione, ma finora le Nazioni Unite e la comunità internazionale non hanno ottenuto risultati concreti.
«È vergognoso che non sia stato fatto nulla», ha dichiarato la direttrice di Amnesty per la Cina, Sarah Brooks, specificando il dramma subito dalle vittime: «Vite distrutte, famiglie separate e comunità smantellate: la repressione continua mentre il mondo resta a guardare».
Le testimonianze
Una donna che ha perso un parente in carcere e ne ha un altro ancora detenuto, racconta: «Dal 2018 non abbiamo più avuto sue notizie. Non una telefonata, non una lettera. Vivere con questa incertezza è una forma di tortura».
Un uomo con un fratello in prigione descrive la sua vita come «una ferita che non guarisce mai». Altri riferiscono che ogni comunicazione con i familiari in patria è costantemente sorvegliata: «Le visite sono possibili, ma sotto controllo, come parte di una messa in scena».
Un'altra donna, che ha una sorella in carcere, si rifiuta di riconoscere la questione come un affare interno cinese: «Quello che accade nello Xinjiang è un crimine contro l’umanità».
Le famiglie delle vittime chiedono che vengano finalmente fatti passi avanti: «Ogni giorno di ritardo è un giorno di sofferenza», ha dichiarato un ragazzo il cui zio è detenuto da anni.