«La carestia a Gaza? È stata decisa a tavolino»


Unicef denuncia la gestione da parte di Israele della crisi umanitaria attualmente in corso a Gaza.
Unicef denuncia la gestione da parte di Israele della crisi umanitaria attualmente in corso a Gaza.
GAZA CITY - Siamo in un momento estremamente drammatico della guerra a Gaza, in cui le autorità israeliane hanno completamente raso al suolo Gaza City e ordinato la deportazione della sua cittadinanza, costretta ad attraversare il deserto e raggiungere il confine con l'Egitto.
Da mesi gli operatori umanitari denunciano una gravissima carestia, che attualmente attanaglia la popolazione palestinese ed è stata riconosciuta ufficialmente dall'Onu nei giorni scorsi. Ne abbiamo parlato con Tess Ingram, la responsabile della comunicazione dell'Ufficio regionale di Unicef per il Medio Oriente e il Nord Africa, che attualmente si trova a Gaza City.
Signora Ingram, prima di tutto dobbiamo parlare dell’ospedale Nasser di Khan Younis, bombardato lunedì dalle Forze di difesa israeliane (Idf) e in cui sono morte almeno 20 persone, tra cui anche 5 giornalisti. I rapporti del personale medico sul posto citano un «tipico doppio-attacco» israeliano, caratterizzato da una prima esplosione seguita da una seconda al momento dell’intervento di soccorritori e giornalisti nella struttura. Pensa che, come suggeriscono alcuni, possa essere stata una strategia deliberata?
«Non sono un analista militare, non posso esprimermi sulle tattiche militari israeliane, ma come operatrice umanitaria posso dire che le regole dettate dal diritto internazionale umanitario sono chiare. Queste garantiscono la protezione del sistema sanitario nel suo insieme. Purtroppo a Gaza assistiamo alla più totale inosservanza di queste regole, con il bombardamento di ospedali e ambulanze, la morte di oltre 1'500 medici e infermieri, oltre 200 giornalisti e circa 18mila bambini in ventidue mesi. E la carneficina non si ferma, nonostante le numerose richieste di soccorso inoltrate alla comunità internazionale».
L’esercito israeliano sta attualmente occupando Gaza City e forzando la popolazione ad andarsene. Come è la situazione sul campo?
«Molte persone si stanno spostando dalla parte orientale alla parte occidentale della città. Gran parte delle attività militari si concentra infatti nell’est. Sono stati costruiti nuovi campi profughi sulla spiaggia di Gaza City e centinaia di famiglie hanno già lasciato le mura cittadine per raggiungere la parte meridionale della Striscia. Solitamente, quando parlo con la popolazione, ricevo due risposte: la prima è “non voglio partire di nuovo. Se dovessero costringermi, farò in modo di posticipare la partenza il più possibile”. È quello che mi ha raccontato un ragazzo di 14 anni, che assieme alla sua famiglia ha deciso di lasciare la città soltanto se i militari israeliani lo avessero costretto. Poi c’è la questione del transito, che è estremamente costoso. Se si vuole partire con i propri possedimenti, si è obbligati a organizzare un trasporto su ruote. E molte persone non possono permetterselo. Devono dunque scegliere se spendere un’enormità per il trasporto motorizzato oppure partire a piedi con ciò che riescono a portare in spalla. E naturalmente ci sono anche persone che sono esauste, malnutrite o addirittura ferite e non possono dunque partire».
E queste come fanno?
«Ieri sono stata in tre ospedali diversi, chiedendo ai dottori come si comporterebbero in una situazione del genere, in cui i loro pazienti sarebbero impossibilitati a partire: in molti hanno risposto alzando le spalle, e dicendo di non saperlo, che probabilmente avrebbero spinto loro stessi le incubatrici con dentro i neonati, cercando di salvarli».
La popolazione palestinese è attualmente alle prese con una gravissima carestia. Che ruolo sta giocando Israele in questa partita?
«Leggendo il rapporto della Classificazione integrata della sicurezza alimentare (Icp), pubblicato la settimana scorsa, lo si capisce in maniera estremamente chiara. Nel rapporto si specifica che la carestia è stata causata dall’uomo, e vengono elencate le modalità con cui è stata generata, come la distruzione dei sistemi agro-alimentari oppure il blocco delle forniture di cibo. L’Icp non è un gruppo politicamente esposto, è composto da tecnocrati esperti, che raccolgono dati sul terreno e che arrivano alle proprie conclusioni. Nel caso specifico, la carestia non è stata causata da un periodo di siccità o da un ciclone, ma da attività umane. Poteva dunque essere evitata. Gli aiuti umanitari si trovavano letteralmente a qualche chilometro di distanza dalle persone che ne avevano bisogno. Il problema è che le autorità israeliane non permettono che un numero sufficiente di camion giungano a destinazione. Nella Striscia di Gaza la scarsità alimentare è stata progettata attraverso una serie di decisioni prese a tavolino».
In che senso "progettata"?
«Gli aiuti che arrivano a Kerem Shalom dalla Giordania o dall’Egitto, ad esempio, devono essere scaricati e scansionati prima di essere caricati sui camion autorizzati a entrare a Gaza, che non possono semplicemente presentarsi al valico, ma necessitano di un'autorizzazione di transito. Noi dobbiamo dunque pianificare, coordinare e far autorizzare i nostri piani, anche solo per ritirare le forniture a Kerem Shalom. In molti casi, non riceviamo l’autorizzazione o ci sono ritardi, altre volte, invece, dobbiamo fermarci ai check-point. Oppure ci viene ordinato di seguire percorsi stradali specifici, in cui i nostri camion rischiano di essere assaltati da persone disperate o addirittura bande criminali. Insomma, non è un ambiente favorevole a una fornitura sicura ed efficiente. Riusciamo a far partire soltanto qualche decina di camion al giorno, quando ne servirebbero almeno 600 per garantire il fabbisogno alimentare della popolazione. E abbiamo già dimostrato durante il cessate il fuoco di esserne in grado».
Cosa è in grado di dare speranza alla popolazione palestinese in questo momento?
«Naturalmente, sperano tutti in un cessate il fuoco, che permetterebbe anche a noi di operare con agilità. Inoltre, il senso di comunità che si respira a Gaza è una grande fonte di speranza. Le persone continuano a sostenersi a vicenda e a occuparsi degli orfani. Un livello di umanità impressionante».