«È difficile sopravvivere quando è il governo che ti vuole uccidere»

Più di dieci anni fa, Anabel Hernández ha dovuto lasciare il suo paese. Con la giornalista messicana - ospite sabato al Lugano International Festival Endorfine - ci muoviamo tra i "tentacoli" dei grandi narcos. Che arrivano ovunque
LUGANO - L'ordine contro di lei non era partito dalla villa di qualche narcos. E, come ci dice, «è difficile sopravvivere quando è il governo che ti vuole uccidere». Ma Anabel Hernández è viva. Sopravvissuta in un paese - il Messico, che ha dovuto lasciare - in cui i giornalisti sono chiamati a fare un lavoro altrove affidato ai magistrati. Spesso pagando con la propria vita. Con la giornalista e scrittrice messicana - che sarà ospite, sabato 20 settembre, al Lugano International Festival Endorfine, dove riceverà il Premio Marco Borradori - mettiamo piede in un mondo che si rivela essere molto meno distante di quanto non sembri.
Ho davanti a me "Emma, la regina del Chapo" perché vorrei partire proprio dalla copertina del libro. Il ritratto di Emma Coronel con questa corona d'oro. La verità però è che nonostante il lusso, i soldi, i gioielli, né lei né le altre donne che lei racconta fanno una vita da regine. O da principesse. Più che corone, indossano catene. D’oro, ma pur sempre catene. Come ci si pone l'obiettivo di una vita che si sa già che non sarà mai felice?
«È una domanda molto interessante. Quella in copertina non è un disegno ma una foto reale che Emma si è fatta fare nel periodo in cui iniziava la trafila giudiziaria di suo marito, "El Chapo" Guzmán. Una foto che è un po’ una provocazione rivolta al marito, con una certa ironia. Perché a quel punto lei già sapeva che lui era stato infedele. Sapeva ormai che era un mostro, un violentatore di ragazzine. E, di più, il mondo iniziava a vedere in lei una complice di tutto questo. Il suo è stato uno strappo, credo anche per ridere di sé stessa, perché più tardi si è saputo che lei stava pianificando il modo di uscire da quel mondo. Per lasciarsi quella vita alle spalle. Nel libro racconto storie molto diverse. Ma la storia di Emma è una storia abbastanza tipica. Di una bella ragazza, di un paesino nel “Triangolo dorato”, nel regno del cartello di Sinaloa. Quando "El Chapo" l’ha conosciuta, Emma aveva solo 17 anni. Lei non ha mai avuto una scelta, a differenza di altre».
L'ha scelta lui...
«E lei ha dovuto dire di sì. E poi lo ha sposato, finendo trascinata in quel mondo. Diventandone vittima ma anche complice. Questo è comune in tutte le storie, per questo per me è importante raccontare le circostanze che portano donne comuni fino a quel mondo così violento. Dove non si trova mai la felicità. Storie, quelle del libro, che non finiscono mai bene».
Quella del Messico è una situazione unica al mondo. La si definisce spesso una "narcocrazia", in cui i cartelli si sono comprati pezzi interi dello Stato. La recente riforma costituzionale, con l'elezione popolare dei magistrati, peggiorerà le cose?
«Le peggiorerà di molto. Moltissimo. In precedenza la scelta avveniva in modo collegiale ora invece è direttamente la popolazione a farlo. E se i cartelli, principalmente quello di Sinaloa, possono comprarsi un ex presidente della Repubblica, vogliamo credere che non possano fare lo stesso con la campagna di un giudice? Sia esso un piccolo magistrato o un giudice della Corte Suprema. Questo modello è stato assai criticato anche da diverse organizzazioni internazionali. Perché quello che è stato fatto è rendere il sistema più accessibile ai narcos. Che così non devono neanche comprarsi un giudice ma possono piazzare direttamente uno dei loro».
Parlando di corruzione, vale la pena soffermarsi anche sulle grandi figure. E penso in particolare a quella di "El Mayo" - al secolo Ismael Zambada Garcia - co-fondatore del cartello di Sinaloa. Poche settimane fa si è finalmente dichiarato colpevole di fronte alla giustizia statunitense. Può essere una svolta?
«È un "twist" nella storia del Messico che potrà essere molto importante. Perché "El Mayo" stava al di sopra anche di "El Chapo", che era la faccia invece più conosciuta del cartello. Nel 2019 ho pubblicato un libro, "Il traditore", sui diari segreti di suo figlio (Vicente Zambada, che dopo l'arresto e l'estradizione, ha testimoniato negli Stati Uniti sull'estensione del giro d'affari nelle mani del padre, ndr.) in cui emerge come "El Mayo" abbia comandato il cartello per un periodo di 55 anni. Per tutto quel periodo, lui ha comandato, ha potuto controllare praticamente tutto il Messico ed era quindi invulnerabile. Solo un altro tradimento ha permesso infine di catturarlo, per poi estradarlo negli Stati Uniti. E lui ora ha ammesso - confermando così le inchieste che ho condotto in questi vent'anni - di aver pagato tangenti a ogni governo per 55 anni. E stiamo parlano di dieci presidenti della Repubblica messicana».
Facciamo ora un passo fuori dai confini messicani. Negli Stati Uniti, il primo mercato al mondo per il narcotraffico. L'Amministrazione Trump ha cambiato del tutto l'approccio alla lotta contro i narcos. Droni ed esecuzioni extragiudiziali. Un'escalation pericolosa. Come ci si è arrivati?
«Se da un lato il governo messicano è stato un complice fondamentale nella crescita del cartello di Sinaloa, dall'altro è altresì vero che il governo degli Stati Uniti e il figlio di "El Mayo" si parlavano almeno dal 2000. Avevano comunicazioni con la DEA, l'agenzia statunitense responsabile della lotta ai narcotrafficanti. Da quanto ho potuto vedere, conoscendo quel sistema criminale così complesso, per un certo periodo gli Stati Uniti hanno pensato di poter controllare i narcos. Non avevano come obiettivo quello di eliminare del tutto il traffico di droga. Per questo intrattenevano un dialogo con il cartello. E così facendo, il cartello ha aiutato le autorità anche ad arrestare altri narcos rivali. Han fatto fuori la concorrenza, diventando più forti. Sentivano di avere il controllo sul Messico e un certo margine di impunità anche negli Stati Uniti. Poi qualcosa è cambiato...».
Ovvero?
«Il fentanyl ha scombinato l'equazione. Perché un conto era la cocaina. Ma ora portano nel paese una droga che sta uccidendo la gente. Ne uccide a migliaia. Ed è diventato un problema di salute pubblica e di sicurezza nazionale. È così che si è arrivati a una vera guerra. Con l'obiettivo - da alcune informazioni che mi confermano questa ipotesi - di ritornare alla situazione precedente: "Tu porta droga nel paese, ma non di quella che uccide la mia gente"».
E l'Europa? I soldi, il riciclaggio, i consumatori. Quel mondo così violento, anche dalla Svizzera, appare molto distante. Ma non è così...
«Assolutamente. C'è un documento del Pentagono che ho trovato, risalente al periodo tra il 2015 e il 2016, secondo cui già allora il cartello di Sinaloa risultava presente nel 60% del pianeta. E non solo per la distribuzione della droga. Hanno installato laboratori per la produzione della metanfetamina nel cuore dell'Olanda. Hanno instaurato alleanze in India e in alcuni paesi dell'Africa per disporre dei precursori chimici necessari alla produzione di droghe sintetiche in Europa. Una penetrazione enorme da parte del cartello, ovunque nel mondo. E tutto senza alcuna consapevolezza da parte dei paesi in cui stava accadendo».
Concludo, però, tornando al Messico. E al libro; perché oltre a quelle che lei racconta, c’è un’altra donna. Quella che scrive. E che per poter continuare a farlo ha dovuto lasciare il suo paese. Un paese pericoloso per i giornalisti. Come si sente quando ci fa ritorno?
«Nel nostro lavoro, stiamo assistendo a un grosso passo indietro a livello internazionale. Si sente che la libertà di stampa è sotto attacco ovunque. È così anche in Europa. Per non parlare di quello sta accadendo a Gaza. Centinaia di colleghi uccisi. È un'infamia. In Messico ci uccidono perché il governo e i cartelli non vogliono che si renda pubblico il fatto che sono la stessa cosa. Che non c'è distinzione tra governo e cartelli. Per questo mi volevano uccidere. È dal 2000 che vivo costantemente minacciata. E dopo aver rivelato le connessioni tra i cartelli e l'allora Segretario di Pubblica sicurezza - la massima autorità di polizia del paese -, Genaro García Luna, lui stesso ha cercato di farmi ammazzare. Non "El Mayo", non "El Chapo", è stato il capo della polizia. Ed è difficile sopravvivere quando è il governo che ti vuole uccidere. Ma in Messico continuo a tornare. Lo devo fare. È il mio lavoro. Ho messo al sicuro la mia famiglia, ma ci torno perché questa è la natura del nostro lavoro. L'obbligo, morale ed etico, di raccontare quello che sta accadendo. Anche se devo rischiare la vita, come fanno tanti altri».