Sepolti dai vestiti che noi non vogliamo più

Il lato oscuro della moda a basso prezzo, con montagne di capi lasciate a marcire nei paesi in via di sviluppo. C'è chi prova a cambiare le cose, ma non è così facile.
Esiste una nuova e infida forma di colonialismo che le nazioni ricche impongono ai paesi in via di sviluppo: quello basato sui rifiuti.
Esattamente come avvenuto fino ad un recente passato, in cui un pugno di nazioni dominanti hanno imposto il proprio controllo politico ed economico sul territorio di quelle conquistate, lo stesso avviene ai giorni nostri dove tutti i cumuli di immondizia, prodotti dalla folle corsa al consumismo dei paesi occidentali, devastano aree naturalistiche molto preziose, se non protette, dei paesi più poveri.
In questa forma di razzismo ambientale, si evidenzia tutta la disparità di potere tra i Paesi che esportano i propri rifiuti e quelli che sono costretti a riceverli, con grave danno ambientale e sociale del proprio territorio. I pochi benefici economici che tali nazioni più povere possono ricevere dallo smaltimento di tali masse di rifiuti, sono ampiamente superati dai costi sanitari che gravano sulle migliaia di persone che sono costrette a vivere a ridosso di queste enormi discariche a cielo aperto, e a lavorarci, fin dalla più tenera età.

Il caso Ghana e l’allarme lanciato da Greenpeace - In un suo recente articolo, The Guardian ha reso noto i risultati di una indagine fatta da Unearthed, una pubblicazione di stampo investigativo ambientale curata da Greenpeace Uk, in collaborazione con Greenpeace Africa, dalla quale risulta che «i vestiti scartati dai consumatori britannici e spediti in Ghana sono stati trovati in un'enorme discarica di rifiuti in zone umide protette».
Come denunciato da Unearthed, sono stati rinvenuti dei capi di abbigliamento di marchi molto popolari, quali Next o Marks&Spencer, a ridosso di una zona umida riconosciuta a livello internazionale che ospita ben tre specie di tartarughe marine, e “i corsi d'acqua e le spiagge sono intasati da indumenti sintetici di alta moda esportati in Ghana dal Regno Unito e dall'Europa”. In una terza discarica nelle vicinanze di tale zona protetta, sono stati trovati capi d'abbigliamento di Zara, H&M e Primark. Già nel 2023, una esplicativa fotografia pubblicata sul quotidiano francese Le Monde, mostrava il porto di pescherecci di Accra, e la sua spiaggia, disseminata di vestiti usati provenienti dai Paesi più industrializzati con frequenza settimanale.

Una piaga per la salute... - L'inquinamento della zona è altissimo e la presenza di microplastiche nelle acque, e di conseguenza nel pesce pescato dalla popolazione locale, mette a serio rischio la salute e la qualità di vita di quest'ultima. Come denunciato da Greenpeace, il Ghana è il Paese al mondo nel quale viene maggiormente esternalizzato lo smaltimento dei rifiuti tessili, e ogni anno vi giungono oltre centoventi mila tonnellate di abbigliamento di seconda mano provenienti dall'Asia, dal Nord America e dall'Europa.
Più della metà di queste tonnellate di rifiuti è costituita da capi d'abbigliamento usa e getta di bassa qualità la cui componente principale è la plastica. Il mondo del fast fashion, più volte chiamato in causa per il dramma dell'inquinamento ambientale, continua a voltarsi dall'altra parte, o ad intraprendere iniziative che sanno più di green washing piuttosto che volte a trovare una soluzione efficace a tale problema.
... e per le società locali - Come riferito dal Guardian, Kantamanto, uno dei più grandi mercati di abiti di seconda mano del mondo, riceve settimanalmente più di mille tonnellate di vestiti di qualità estremamente scadente: i commercianti locali si lamentano di tale stato di cose e una di loro Mercy Asantewa ha riferito che «in passato avevamo buoni vestiti da vendere per prenderci cura delle nostre famiglie, ma oggi gli abiti usati che troviamo nelle balle non sono adatti alla rivendita. Sono di scarsa fattura e cadono a pezzi già quando apriamo le balle».
Per Solomon Noi, capo dipartimento di gestione dei rifiuti di Accra, “la città è in grado di raccogliere e trattare solo trenta tonnellate, mentre le restanti settanta finiscono in discariche, zone umide, mare o altri luoghi sensibili dal punto di vista ambientale”.

Fast fashion: un modello insostenibile - Nato come modello di produzione di vestiti a basso prezzo, e con standard qualitativi molto scadenti, negli enormi complessi produttivi in Cina e Bangladesh, il fast fashion si è imposto nei Paesi occidentali andando a incrementare l'acquisto di beni di consumo velocemente deperibili e altamente inquinanti.
Oltre a rappresentare un serio problema per la salute del Pianeta nella fase di produzione e commercializzazione, tali capi d'abbigliamento rappresentano un grave problema anche nella fase di smaltimento e riciclo. Come è possibile leggere al riguardo nel sito del Parlamento Europeo, la produzione tessile in questi ultimi decenni è quasi raddoppiata, passando dai 58 milioni di tonnellate prodotte nel 2000 ai 109 milioni di tonnellate prodotti nel 2020. Si prevede che, con tale ritmo, si arriverà a produrne 145 milioni di tonnellate entro il 2030.
Secondo il report Preferred Fiber and Materials Market Report del 2023, nel 2020 le fibre chimiche rappresentavano oltre il 70% della produzione globale del tessile e il 64% delle fibre prodotte al mondo derivano direttamente dal petrolio. La Cina è leader indiscusso nel settore della 'moda veloce', con un export dieci volte superiore a qualsiasi altro Paese al mondo, mentre l'importazione di vestiti riguarda in via principale l'Europa, gli Stati Uniti, il Giappone, il Regno Unito e la stessa Cina.
La filiera della moda ha un enorme impatto in termini di consumo d'acqua, con miliardi di metri cubi d'acqua impiegati per la produzione di tali vestiti, e di emissioni di sostanze inquinanti. Nella loro fase di scarto, poi, si stima che l'industria del tessile sia responsabile di almeno il 3% delle microplastiche presenti negli Oceani.
Bambini sfruttati nello smaltimento rifiuti - A giugno di quest'anno, Action Aid e Progetto Happiness hanno diffuso un nuovo reportage per far conoscere la drammatica realtà dei minori che lavorano nella discarica di Agbogbloshie, in Ghana.
«Il nostro stile di vita, ciò che consumiamo e gettiamo, ha un prezzo che non vediamo, ma che altri, troppo spesso bambini, pagano ogni giorno. Un bambino che oggi lavora nella discarica domani sarà un adulto che continuerà a farlo», ha dichiarato Bertuccio D'Angelo, fondatore del progetto Happiness. Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre diciotto milioni di bambini nel mondo sono impiegati nel settore del riciclo dei rifiuti per guadagnarsi da vivere, respirando fumi tossici ed esponendosi a gravi rischi per la propria salute.

L'indifferenza dell'Occidente - L'enormità del problema appare evidente eppure, come visto, le nazioni 'sviluppate' preferiscono fingere di non sapere dove vanno a finire tutti i rifiuti prodotti dalla propria società consumistica, e non adottare delle politiche serie in merito. Secondo i dati forniti da Greenpeace, solo nel 2022 l'Europa ha spedito in Egitto quasi due milioni di tonnellate di rifiuti, e un milione in Marocco.
La maggior parte di essi arriva nei Paesi 'colonizzati' «non assortita e non adatta alla lavorazione», e di conseguenza «le discariche traboccano e sostanze chimiche tossiche si insinuano nelle acque sotterranee e nel terreno». La cattiva qualità dei capi di abbigliamento prodotti dalla moda veloce e, come detto, la presenza in essi di materiali sintetici non biodegradabile, come il poliestere, creano degli effetti devastanti sull'ambiente, oltre che evidenziare la profonda diseguaglianza esistente tra il Nord e il Sud del mondo.

Verso soluzioni sostenibili - Tra le soluzioni proposte per cercare di frenare questo stato di cose vi è il ritorno alla slow fashion che, essendo l'esatto contrario della fast fashion, promuove la produzione di capi d'abbigliamento con prodotti naturali, riscoprendo il valore di una economia realmente circolare in cui viene promosso il riuso dei capi stessi. Per Greenpeace, inoltre, è fondamentale introdurre l'Extended Producer Responsability, Epr, in forza del quale le aziende sono ritenute responsabili dell'intero ciclo di vita dei loro prodotti.
Ciò le indurrebbe a «progettare prodotti più facili da riciclare e meno dannosi per il Pianeta». Inoltre, sarebbe fondamentale il Consenso Informato Preventivo, Pic, che garantirebbe ai Paesi «di poter rifiutare le spedizioni di rifiuti pericolosi, mantenendo solo i materiali utili e di alta qualità».
In ambito locale, poi, andrebbero introdotte norme più severe che impongano una più attenta selezione dei rifiuti da spedire, oltre al miglioramento dell'attività di riciclo. Così come nella sensibilità moderna, appare odioso il concetto di colonialismo, in egual modo deve risultare sempre più intollerabile che ci siano persone che muoiano letteralmente per una maglietta in più nel nostro armadio.
Appendice 1
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